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Abito ai margini del nuovo quartiere che ruota intorno a piazza Gae Aulenti molto ammirata per i suoi ‘boschi verticali’ per il cui mantenimento ci vuole una quantità enorme di energia idraulica che potrebbe essere meglio utilizzata altrove. Le mie finestre stanno proprio davanti al ‘grattacielo a banana’, il più alto di Milano (35 piani), il primo di una lunga fila che porta alla piazza. A dire il vero è lui, questo grattacielo che solo un architetto demente poteva ideare, che sta davanti a me, anzi incombe perché per la sua forma sbilenca sembra che possa precipitarmi addosso da un momento all’altro. Prima vedevo le prealpi e le alpi, la Grigna di manzoniana memoria, il Cervino, il Rosa. Per la verità questa vista, unica a Milano, era già stata parzialmente compromessa da due incredibili grattacieli a pagoda costruiti dall’architetto De Micco (una speculazione socialista della fine degli anni ’80) e che in vent’anni non sono mai stati abitati, tant’è che ora sono costretti a ristrutturarli. Non si vede quindi la ragione, in una città che si sta oltretutto spopolando, per costruire questa ulteriore fungaia di grattacieli superstar, di questa imitazione di Manhattan che puoi trovare anche ad Abu Dhabi e Dubai senza nemmeno quei cammelli e dromedari (finti) che fan folclore.

Milano non è mai stata una città di grattacieli. C’era il Pirelli, la stupenda opera di Gio Ponti e dell’ingegner Nervi. Se lo guardi di profilo sembra sottile come la prua di una nave. Ma io alla Pirelli ci ho lavorato, prima che diventasse un bivacco della Regione, e fra una parete e l’altra ci sono 60 metri. C’era la Torre Velasca, un po’ più discutibile, e c’era in piazza della Repubblica il grattacielo che chiamavamo ‘americano’ perché ospitava il Consolato degli Stati Uniti e dove io, ventenne ancora ignaro di tutto, la sera del 22 novembre del 1963 andai a firmare il grande libro di condoglianze per la morte di Kennedy.

Il quartiere ‘Gae Aulenti’ è venuto su in pochissimo tempo, verrebbe da dire da un giorno all’altro. Per un ospedale ci mettono vent’anni e quando è finito è già obsoleto. Ma quando c’è “zucchero da far” come direbbe Fred Buscaglione, cioè business, sono velocissimi. Anche se questa volta qualcosa deve essergli andato storto perché il grattacielo ‘a banana’ è vuoto da due anni. E’ dovuto intervenire l’Emiro del Qatar.

Milano storicamente è una città di palazzi signorili che vanno dal Settecento alla fine degli anni Trenta o di case alte non più di dieci piani ma soprattutto di case un tempo popolari che stanno anche in quartieri in pieno centro, come il Brera e Garibaldi, oggi ridotti a Disneyland per turisti scemi come quelli che a Parigi vanno a Montparnasse o a Montmartre, al Dome e alla Coupole credendo di trovarvi ancora Sartre, Breton, Max Ernst, Foujita, Van Dongen e tutta quell’allegra compagnia di artisti squattrinati. Anche a Brera, insieme ai ceti popolari, c’erano gli artisti perché gli affitti erano alla portata di tutte le tasche e al Giamaica e alla mitica latteria delle sorelle Pirovini potevi incontrare Dova, Crippa, Fontana, Manzoni. C’era una commistione sociale e intellettuale che rendeva feconda la parte di quella città ora scomparsa.

Dal lato opposto dei grattacieli Gae Aulenti ci sono delle dignitose case popolari di quattro o cinque piani che non hanno potuto abbattere. Sono state abitate, in parte lo sono ancora, da vecchi milanesi, da immigrati di prima generazione, friulani, veneti, emiliani, e di seconda generazione quella che venne al nord all’epoca del boom economico. Tutta gente a posto. Ma la lievitazione degli affitti provocata dallo chiccosissimo quartiere dei grattacieli la sta pian piano scacciando sostituita da un ceto medio, maleducato come solo il ceto medio sa essere.

I grattacieli superclasse hanno disarticolato il mio quartiere. In via Fabio Filzi che è molto lunga e finisce dove c’è quel palazzo della Guardia di Finanza dove ai tempi di Mani Pulite venivano abbottegati i corruttori di regime ci sono in tutto un panettiere, un casalinghi, un fruttivendolo, un minimarket. Se hai bisogno di un martello devi andare su eBay. E’ un fenomeno che in realtà riguarda tutta la città, sono sparite le drogherie, le mercerie, i ferramenta, i falegnami e insomma tutti i piccoli negozietti sostituiti dai ‘grand espace’, dai supermarket, dai centri commerciali, dai grandi empori di Armani e di altri stilisti.

Nel mio quartiere proliferano ora locali trendy o trendissimi come quello di Bélen Rodriguez che, oltre al lusso, respirano maleducazione da tutti i pori. Bélen si è permessa di cacciare dal suo ristorante Gianni Morandi e Selvaggia Lucarelli perché aveva una questione in sospeso con quest’ultima. Una cosa da ritiro della licenza perché un ristorante, se non è un club, è un luogo pubblico e nessuno può esservi estromesso a meno che non sia in stato di evidente ubriachezza.

Per trovare un posto normale devo spingermi verso la Stazione Centrale dove c’è un piccolo bar tabacchi tenuto da una signora molto garbata che, se non lo sai fare, ti va a prendere personalmente le sigarette che non ha in negozio alle macchinette poco a fianco e dà dei piccoli lavoretti a un clochard che staziona da quelle parti. E’ un mendicante vecchia maniera. Sta seduto con le spalle appoggiate al muro col cappello aperto davanti. Non dà fastidio. Non chiede. Se vuoi gli lasci qualche moneta. Qualche volta vado a sedermi al suo fianco. Si chiama Fabiano, è ancora giovane, ha 39 anni ma precedenti di droga. Mi spiega: “Cerco lavoro, ma con i miei precedenti come faccio? Il problema non è il dormire, qualche posto si trova in un modo o nell’altro, ma il mangiare, se non hai i soldi non mangi”. Intanto ci passano davanti senza degnarci di uno sguardo belle signore, d’inverno impellicciate e con cagnolini incappottati. E io comincio a sognare. Sogno di prenderle a calci nel sedere fino alla fine della via. La conosco, la conosco bene questa gente. In genere hanno due case a Milano, una al mare, preferibilmente a Porto Cervo perché si illudono di poter sbirciare Berlusconi, una tenuta di campagna e, per non farsi mancar nulla, cinque o sei appartamentini a Monza che affittano a strozzo. Non fanno che parlar di quattrini e lagnarsi: i guardiani della tenuta costano, la servitù costa, le tasse che eludono o evadono con grande disinvoltura. E’ una borghesia medio/alta che non ha nulla a che vedere con la grande borghesia milanese di un tempo, che dava il tono alla città, quella dei Pirelli, dei Borletti, dei Brion, dei Falck, dei Rizzoli, dei Mondadori. La loro cultura è disarmante come la loro conversazione perché non va oltre i talk show televisivi.

Le giunte Moratti e Pisapia hanno ricostruito la Darsena. A regola d’arte. La Darsena e i tram sono, o meglio sono stati, il vero simbolo di Milano, più del Duomo. Pochi sanno che fino a una cinquantina d’anni fa Milano aveva il più grande porto di sabbia d’Europa. La portavano i barconi dalle cave a una quarantina di chilometri dalla città (con questa sabbia è stato costruito il Duomo). Nell’Ottocento, lungo i navigli, i barconi erano trainati dai buoi che ogni tanto stramazzavano a terra per la fatica. In seguito dai trattori. Al ritorno sfruttavano la leggera discesa.

Per molti anni le giunte socialiste avevano lasciato andare la Darsena che si era ridotta praticamente ad un immondezzaio. Adesso, come ho detto, è stata rifatta per bene e ingrandita di molto. Ma qui siamo alle solite, al problema dei ‘beni indivisibili’ come li chiama Hirsch. Una casetta solitaria in montagna è un bene prezioso, cento casette raggruppate perdono quel significato. Adesso la Darsena è affollata di turisti e di ristorantini di ogni specie. E’ un laghetto come un altro. Non ci sono più le coppie di innamorati che vi andavano a passeggiare e i pittori della domenica che vi cercavano un’ispirazione. Non è più roba per milanesi. I quali la domenica vanno a divertirsi all’Ikea. Prudentemente piazzata fuori città o quasi.

Il traffico non è quello di Roma o di Napoli, ma ugualmente intenso e più nevrotico. Una mia amica di Verona, città in cui si è ancora capaci di divertirsi, mi prende scherzosamente in giro: “Ma quando lavorano i milanesi se sono sempre in macchina?”. No lavorano, lavorano i milanesi perché li è sempre piaciuto ‘ruscare’, ma in modo nevrotico e quasi isterico. I passanti non sono passanti, non fanno flanella, non si guardano intorno, puntano dritto verso un appuntamento di lavoro.

Milano si sarà anche ‘allineata’ alle grandi capitali europee come orgogliosamente si dice, ma ha perso in larga misura la propria identità, quell’aria bonaria che per tanto tempo la caratterizzata. E’ diventata disumana. Come forse tutto quello che, senza che ci corra un brivido lungo la schiena perché ricorda le superpotenze anonime e omnicomprensive (Eurasia, Estasia) di cui parla Orwell in 1984, chiamiamo Occidente.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2016