E’ in fase avanzata il progetto di costruire a Milano un nuovo stadio di calcio che dovrebbe sostituire quello, storico, di San Siro. I tifosi e anche i milanesi che tifosi non sono si sono divisi fra favorevoli e ‘nostalgici’. Va da sé che io sono fra i secondi, però per ragioni più profonde della semplice, e sia pur importante, nostalgia. Per la verità io sono nostalgico del vecchio San Siro, quello che c’era, immutato da sessant’anni, prima che, per i Campionati del mondo del 1990, si decidesse di ‘aggiornarlo’ con un costo che partito da un preventivo di 35 miliardi arrivò, in corso d’opera, a 170 per le solite grassazioni che si consumano, ovunque e comunque, sulle ‘grandi opere’. Ma questo sarebbe ancora il meno perché a tali ruberie siamo ormai così abituati da non farci nemmeno più caso. La cosa più grave è che il vecchio stadio invece di uscirne migliorato è stato peggiorato, in tutti i sensi. Quello estetico tanto per cominciare. San Siro, visto da fuori e da dentro, era un ovale perfetto. Le quattro enormi torri, per costruire un terzo anello, inutile perché San Siro, giochino il Milan o l’Inter anche contro una grande rivale europea, 90 mila spettatori non li ha mai visti e perché, comunque, dal terzo anello il campo è troppo lontano e non si vede nulla, hanno distorto questa ellittica geometria. Il terreno di San Siro, non a caso noto come “la Scala del calcio”, era considerato il migliore d’Europa insieme a Wembley e al Prater di Vienna. L’altrettanto inutile tettoia in vetrocemento che dovrebbe proteggere gli spettatori, inutile perché la pioggia ha il cattivo e dispettoso vizio di non scendere giù dritta ma di traverso, lo ha rovinato. Chiunque abbia giocato a calcio anche sui campi più periferici o dilettantistici sa che la buona tenuta del terreno dipende dalla sua esposizione al sole. Con quell’assurda copertura il terreno di gioco, un misto di erba e sintetico causa non ultima dei numerosi infortuni, ora deve essere cambiato ogni tre mesi. In primavera e a inizio estate si soffoca, non si respira. Ho assistito con mio figlio Matteo alla partita Germania-Olanda dei Campionati del mondo del 1990, giocata a fine giugno (2 a 1 per i tedeschi, gol di Klinsmann e di Brehme, chi segnò per gli olandesi non me lo ricordo). Eravamo dietro una delle porte, sul primo anello, e quindi molto vicini al terreno di gioco. Respiravamo a fatica e ci chiedevamo come potessero farlo quelli in campo.
Comunque, nonostante tutto, San Siro resta un signor stadio, tanto che vi si è disputata nel 2016 la finale di Champions. Perché allora abbatterlo? L’idea è partita dagli Stati Uniti, da Elliott, il fondo proprietario del Milan. Adesso gli americani, che a calcio non hanno mai saputo giocare (i loro sport sono il baseball e il basket) vogliono colonizzarci anche in questo gioco che è nato in Europa. E naturalmente vi portano la loro mentalità e la loro cultura. Poiché non hanno una Storia, almeno rispetto a quella più che bimillenaria dell’Europa, non hanno nemmeno monumenti. Per loro abbattere un grattacielo per sostituirlo con un altro è normale. Lo skyscraper è il loro mito. Benché buona parte del territorio sia costituito da grandi pianure il loro orizzonte, anche sociale, è verticale (“il sogno americano”). Per noi europei, e soprattutto per noi italiani, è molto diverso. Abbiamo una memoria storica e su questa si fonda la nostra identità. Noi, a differenza degli americani, non guardiamo al futuro ma al passato, perché il nostro è un grande passato. Lo è anche quello dei tempi più recenti. Se pensiamo a Milano –perché qui di Milano si tratta- questa città è fatta dei suoi stupendi palazzi, settecenteschi, ottocenteschi, novecenteschi (per questi ultimi fino alla Seconda guerra mondiale), delle sue case di ringhiera là dove ancora esistono e resistono a quella che si chiama ‘modernizzazione’. Ed è fatta quindi anche del suo stadio di calcio, che è del 1928, dove sono passate, gioendo o soffrendo, generazioni e generazioni. Togliere di mezzo San Siro significa recidere una parte, non trascurabile, della memoria storica di Milano e dei milanesi.
Naturalmente tutta questa faccenda del nuovo stadio nasce sull’onda del business, l’unico Dio universalmente riconosciuto in tutto il mondo, adesso anche in Cina dove un Dio propriamente detto non l’hanno mai avuto e se mai c’era non si occupava certo di affari. Intorno al nuovo stadio dovrebbero nascere negozi, appartamenti di prestigio, uffici. Ma questo oltre a interrompere e travolgere un tempo, con tutti i suoi valori, di cui i nuovi abitanti di Milano non avranno più memoria, significa scardinare un intero quartiere, con la sua socialità, la sua estetica, i suoi angoli di visuale: lo stadio, con dietro, più nascosto, l’ippodromo del trotto anch’esso destinato a scomparire. Un quartiere che fino a oggi aveva funzionato benissimo. Del resto l’esperimento, con effetti devastanti sul piano sociale, è già stato fatto con gli strampalati grattacieli, compreso il ‘bosco verticale’, che ruotano attorno alla piazza Gae Aulenti (sarò della vecchia scuola ma per me un bosco è fatto per passeggiarci dentro, non per impiccare degli alberi alla facciata di un edificio).
Ma c’è anche un altro aspetto della questione che i Latini, molto meno citrulli di noi, riassumevano nel brocardo “quaeta non movere”: cioè se una cosa ha funzionato bene, magari a basso regime, che necessità c’è mai di cambiarla? L’altro giorno sul Fatto Fanny Pigeaud ha dato conto di una commendevole e pia iniziativa del Wwf che vorrebbe ridurre una vasta area forestale del Congo a “riserva naturale”, sotto la tutela dell’Unesco, per salvare appunto la foresta espellendone gli ottomila indigeni, questi importuni, che ancora si ostinano ad abitarla. A questo progetto sostanzialmente coloniale l’antropologa Fiore Longo ha replicato: “Se la foresta ha la sua biodiversità vuol dire che i popoli che vi hanno sempre vissuto hanno saputo preservarla. Allora, perché cacciarli via?”.
Ebbene, anche lo stadio di San Siro fa parte, nel suo piccolo, di questa ecologia naturale. E quindi resti così com’è, come lo abbiamo amato, o magari odiato, per quasi un secolo. In culo agli yankee.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2019