L'acquisto dell'Inter da parte del giovane magnate indonesiano Erick Thohir non segna la 'fine di un'epoca' per la gloriosa società nerazzurra e nemmeno è un segno della decadenza di Milano come scrive sulla Repubblica (25/9) Carlo Verdelli che fa notare come altri pezzi pregiati della capitale meneghina (la sede di via Solferino del Corriere, l'altrettanto storica pasticceria Cova) sono finiti in mani straniere. Potrebbe essere, al contrario, un segno di vitalità. Non si dice forse sempre che in epoca di globalizzazione bisogna essere capaci di attrarre capitali e investimenti dall'estero? Ecco i capitali e gli investimenti. Di che ci lamentiamo?
La cessione dell'Inter a Thohir non segna la fine di un'epopea locale o la decadenza di una città, cose di cui chi non è nerazzurro o milanese potrebbe tranquillamente impiparsi. La questione è più ampia e più grave. Questa cessione certifica, emblematicamente, la fine dell'agonia del calcio, cioè la sua morte simbolica, agonia iniziata almeno trent'anni fa (in Italia dal 1982, quando dopo la vittoria della Nazionale ai Mondiali di Spagna fu introdotto 'il terzo straniero'), in un'epoca in cui di globalizzazione non si parlava ancora. E' da almeno trent'anni che il calcio è stato progressivamente depauperato di quei valori, mitici, rituali, sacrali, simbolici, identitari che per più di un secolo hanno fatto la fortuna di questo gioco, che solo gioco non è, a favore dell'economico, del business e in particolare del business televisivo. Chiunque conosca almeno un po' questo gioco sa che fra calcio da stadio (che nel frattempo, proprio a causa della Tv, ha perso il 40% degli spettatori) e quello televisivo non corre alcuna parentela. Il piccolo schermo inquadra solo porzioni del campo e, ovviamente, si perde la visione d'insieme e alcuni giocatori, specialmente mediani di difesa, vi appaiono raramente eppure sono fondamentali nell'economia del gioco della squadra. Ma questi sono dettagli tecnici. Le ragioni più importanti stanno altrove. Il calcio da stadio era, per dirla con Gramsci, una grande festa 'nazional-popolare' (e cosi' è rimasto in alcuni Paesi nordici come Olanda, Danimarca, Norvegia, Scozia), interclassista che aveva un'importante funzione di coesione sociale. Allo stadio l'imprenditore sedeva accanto all'operaio. Vissuto solipsisticamente a casa, davanti alla Tv, il calcio perde questa sua fondamentale funzione aggregante. Cosi' come perde un'altra funzione che è quella di dare uno sfogo legittimo, e sostanzialmente innocuo, all'aggressività che dorme in ciascuno di noi e che è vitale. E' chiaro che se, sempre per motivi di business (la politica dei prezzi e degli abbonamenti), si schiaffano i ragazzotti, tutti insieme, dietro le porte e in curva questa aggressività puo' diventare molto meno innocente e un pericolo sociale. Il calcio permetteva anche di esaudire un'importante esigenza dell'animo umano: quella identitaria. Ci si identifica in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nei suoi colori, nei suoi giocatori-simbolo (Totti, 'romano de Roma', è l'ultimo superstite) ma che processo di identificazione ci puo' essere se i giocatori cambiano squadra ogni anno o addirittura, col mercato perennemente aperto, nello stesso campionato e se le maglie, per esigenze degli sponsor, non sono più quelle tradizionali? E ai piagnoni nerazzuri vorrei ricordare che poco tempo fa l'Inter giocava con questa formazione: Julio Cesar, Maicon, Lucio, Samuel, Zanetti, Cambiasso, Thiago Motta, Schneider, Pandev, Eto'o, Milito. Non c'era un solo italiano. E allora Erick Thohir se lo sono proprio meritato.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 27 settembre 2013