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C’è allarme per l’aumento del gioco d’azzardo determinato soprattutto dalla possibilità che oggi si può giocare online senza dover andare in sala corse o al Casinò o all’ippodromo. Oltre a ragioni fiscali che qui non ci interessano perché è presupposto che gli allibratori paghino le tasse come tutti gli altri, l’allarme è determinato dal fatto che il giocatore può diventare ludopatico cioè diventare un addicted del gioco. La ludopatia è una malattia molto moderna mai riconosciuta come tale fino a tantissimi anni fa. Le grandi organizzazioni dell’azzardo online per lavarsi la coscienza ed evitare ulteriori strette governative sul gioco ammoniscono di “giocare responsabile”. E’ un ossimoro perché l’azzardo è di per sé irresponsabile altrimenti non si chiamerebbe azzardo. Premetto che, secondo me, ciascuno è libero di rovinarsi la vita come più gli piace e non per nulla il Codice Penale non punisce l’ultima tappa di questa autodistruzione, il suicidio. 

Per capire il giocatore d’azzardo bisogna cercare di entrare nella sua psicologia. Anche se il gioco d’azzardo prevede l’impiego di soldi (altrimenti si trasforma in un gioco privo d’attrattive e per niente divertente, tipo burraco che lasciamo volentieri alle signore di una certa età) non vi si gioca per soldi, per guadagnare dei quattrini dato che il giocatore è necessariamente un perdente contro il banco il quale trattiene per sé circa il 60 per cento della vincita. 

Il poker, intendo il poker normale a cinque carte e non il texas hold ’em che abbiamo ereditato dagli Stati Uniti, è il meno d’azzardo dei giochi d’azzardo, perché vi contano la perfetta conoscenza delle regole e della tecnica del gioco, la psicologia, in un tavolo nuovo devi capire il più rapidamente possibile quella dell’avversario, quella cosa misteriosa che si chiama ‘presenza al tavolo’, misteriosa come il carisma per cui l’avversario ti deve temere sempre anche se non hai niente in mano, ed è quindi uno scontro di personalità, aggiungo anche che il vero giocatore deve giocare allo stesso modo, senza che sul suo viso, imperturbabile, appaia emozione alcuna, sia che la puglia sia di diecimila euro o di un milione (ho visto bravissimi giocatori, alcuni dei quali mi hanno insegnato il poker, perdere tutta la loro abilità man mano che si alzava la posta). In tutti i restanti giochi, roulette, chemin, blackjack, tutto è affidato al caso o a un fumosissimo calcolo delle probabilità, è chiaro che se alla roulette è uscito 18 volte il rosso alla diciannovesima la pallina volerà sul nero. 

Nel poker non hai mai un punto sicuramente vincente: la scala reale massima viene battuta dalla minima. C’è solo un caso, ma è di scuola, in cui esiste questa sicurezza: tu hai due dieci in mano, con gli scarti ti entrano altri due dieci e, poniamo, un asso mentre tu hai scartato un re, una regina, un fante e quindi tutte le Scale reali sono tagliate fuori non esistendo, a differenza del texas, la possibilità di un poker di cinque. 

Il vero giocatore, e questo apparirà ancora più curioso, non vuole vincere ma, almeno inconsciamente, perdere. Poiché questo gli movimenta la vita. Quante volte ho visto il mio ‘compagno di merende’ di allora, che chiamerò prudentemente DB, uscire dal casinò di Campione, passare deluso, perché aveva vinto, sotto quell’arco che sembra dire, quando lo si imbocca all’inizio della serata, “lasciate ogni speranza o voi che entrate”.

Comunque poiché gioca col denaro ma non per il denaro, ogni occasione sarà buona per sperperare subito quanto ha vinto. In altri giochi, alle corse dei cavalli, gli “stramaledetti quadrupedi”, e persino alla pelota. C’è poi una legge ‘gravitazionale’, per dirla con Battiato, per cui tu la prima volta che entri in un Casinò vinci e questo ti incoraggerà a giocare ancora e sarà la tua perdizione. Ho già raccontato la storia di “monsieur douze”, giocava solo sul 12 e vicini, che entrato la prima volta, titubante, al casinò di Campione vinse una cifra strabiliante e in seguito perderà tutto, non solo quello che aveva vinto, ma la casa, la famiglia, le figlie, tutto.

Il vero problema del gioco d’azzardo online non è che possa indurre alla ludopatia ma che rompe la comunità. Prima per poter giocare dovevi andare in Sala corse, per fare la schedina del Totocalcio dovevi andare al bar oppure per giochi più popolari, come i dadi, scendere in strada. Oggi stai a casa e giochi online. In un certo senso è la stessa storia del cinema e di Netflix dove puoi vedere tutti i film che vuoi restando a casa. E’ la storia del biliardo sostituito dalle slot. Ma sono fatti del tutto diversi, una cosa è giocare al biliardo con altri giocatori, altra è appiattirsi sulle slot che hanno sbaragliato il biliardo perché occupano meno spazio e rendono di più, una cosa è entrare in un cinema insieme ad altri spettatori di cui puoi sentire i commenti e poi magari continuare la chiacchiera fuori altra è farsi una solipsistica sega. E tutto questo ha a che fare con qualcosa di più grande, di più grave e di più serio: la solitudine dell’uomo moderno. 

 

23 marzo 2025, il Fatto Quotidiano

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Quatta quatta, ma in realtà non tanto quatta, la Cina sta conquistando il mondo. Non fa, a differenza del cosiddetto Occidente, guerre inutili, la conquista avviene attraverso la conoscenza, la ricerca, l’innovazione in particolare nel campo di quella tecnologia digitale che oggi sembra governare il mondo. Innumerevoli sono le start-up cinesi, guidate da ragazzi che hanno studiato in università cinesi, che sono in grado oggi di sfidare i giganti della Tecno americani: Liang Wenfeng fondatore di Deepseek in primissima posizione nel mondo dell’intelligenza artificiale, Wang Xingxing fondatore di Unitree Robotics “diventata un fenomeno dopo che i suoi robot umanoidi hanno debuttato ballando musica folk” (copyright Danilo Taino) Zhang Yiming di ByteDance, la società proprietaria di TikTok, così potente che in Romania per delegittimare il candidato indipendente e filorusso Calin Georgescu lo hanno accusato di utilizzare TikTok (bell’esercizio di democrazia, direi) e ancor più perché sono milioni i ragazzini e le ragazzine che si esercitano su TikTok nella speranza di diventare degli influencer. C’è poi Wang Tao, fondatore di Dji, il maggior produttore mondiale di droni.

Cosa dovrebbe fare l’Europa nei confronti della Cina? Sottomettersi come ha fatto dalla fine della Seconda guerra mondiale agli americani? Certamente no, anche se la Cina ha una cultura antichissima e troppo fine per produrre sguaiataggini alla Donald Trump. Dovrebbe cercare di avere buoni rapporti commerciali con questo colosso economico, e non solo economico, come aveva tentato di fare a suo tempo, nel 2019, l’allora ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, l’oggi disprezzatissimo Di Maio che sarà partito anche come “bibitaro” ma un certo intuito politico ce l’aveva. Ma naturalmente gli yankee, avvertendo il pericolo, bloccarono tutto. E noi, come sempre, ci sottomettemmo.

Non so come si viva oggi in Cina non lo so come non lo sa nessuno perché la censura è ferrea molto più di quella che c’era in Russia ai tempi dell’Unione Sovietica. Sia detto di passata: il tempo di maggior liberalità in Russia è stato quello degli Zar e quindi quando si accusa Putin di essere uno Zar gli si fa un favore, solo dieci degli insorti comunisti o filo-comunisti furono fucilati, purtroppo fra questi c’era anche il fratello di Lenin, a volte si faceva solo finta di fucilarli come accadde a Dostoevskij, Memorie del sottosuolo che era uno scherzo direi da preti ma ti lasciava in vita. Del resto Dostoevskij che era un panrusso integrale poteva capire bene la sottigliezza, chiamiamola così, di quell’ingranaggio. Ma anche i terroristi filo-comunisti erano di un’altra pasta, è nota la storia di quel terrorista che al passaggio della carrozza degli Zar avrebbe dovuto gettarsi con una bomba fra le gambe dei cavalli, ma vi rinunciò quando si accorse che sulla carrozza c’erano anche i figli dello Zar e della Zarina. Camus li ha chiamati i “terroristi gentili”. Comunque altri Zar, altri terroristi, altri tempi.

Quindi non ci sono reportage dalla Cina, bisogna risalire a quello, bellissimo, di Vittorio Feltri che risale però al 1989. 

Non conosco quindi i cinesi di Cina ma conosco quelli che si sono trasferiti in Italia, in particolare a Milano, da tempi quasi pleistocenici in zona Sempione, non per nulla chiamata Chinatown, che trafficavano in pelletteria. Conosco quindi i cinesi che vivono da decenni o anche da tempi recenti a Milano. Bene. A Milano c’è un’assurda norma che impone ai ristoranti di chiudere alle due di notte, fa eccezione Le Capannelle non a caso vicino a San Vittore che di questo decreto comunale si fa un baffo e lì si raccolgono gli inquieti della notte, quel che resta della mala milanese, quel che resta delle puttane da strada, un mélange che i gestori riescono a controllare con molto tatto, così com’era quando esistevano ancora le bancarelle notturne davanti alle quali si raggruppava lo stesso tipo di clientela. Se voi andate in un ristorante gestito da italiani poco prima delle due vi dicono che stanno chiudendo, se è tenuto da cinesi ne calano giù dieci pronti a servirvi. Del resto se voi andate a New York nelle strade del centro non vedete un solo cinese, poi voltate un angolo, sembra un formicaio impazzito. Ad Harlem, quartiere storico dei neri, li vedete immobili, a gruppi all’angolo di una strada. Non c’è violenza ma la sensazione della violenza. Ho girato per Harlem per un’intera giornata e ho visto solo due poliziotti bianchi, di origine, mi parve, scozzese. Non trovavo un taxi. Quando finalmente ne acchiappai uno il tassista mi disse se ero pazzo. Molto meglio il Bronx dove la violenza c’è realmente ma dà almeno vitalità al quartiere. Vi andai una volta e chi mi accompagnava e guidava la macchina, il corrispondente dell’Europeo, ebbe l’imprudenza di fermarsi di botto e in modo ostentato. Scesi dalla macchina e già in tre o quattro mi erano addosso. Gli feci fare un largo giro e rientrai nel Bronx cercando di mimetizzarmi.

Ah la vecchia e cara indolenza dei neri, che va bene quando stanno in Africa, non in una grande città.

E adesso dico una cosa che va in senso esattamente contrario a ciò che ho scritto. I cinesi sono diventati capitalisti, capitalismo di Stato, si capisce, ma pur sempre capitalismo. E i giovani imprenditori che abbiamo citato ne danno ampia dimostrazione. Ora all’origine della cultura cinese c’è Lao Tse, Il libro della norma, che predica la non azione, la inazione. Il capitalismo è stato talmente forte da sfondare anche questa cultura bimillenaria.

Nei giorni scorsi a Milano si è data una pièce intitolata Cassandra con una straordinaria interpretazione di Elisabetta Pozzi, e Cassandra, lo dico in estrema sintesi, avverte sui rischi di dimenticare il presente in ragione del futuro: “Io vedo l’uomo tecnologico scendere una ripidissima strada in sella ad una splendente bicicletta senza freni: all’inizio era stato piacevole, per chi aveva pedalato sempre in salita e con immane, penosa fatica, lasciarsi andare all’ebbrezza e alla facilità della discesa, ma ora la velocità continua ad aumentare e si è fatta insostenibile, finché ad una curva finiremo fuori!”. Ad un certo punto Pozzi non in questa versione di Cassandra ma in una di poco precedente, si volta verso il pubblico e dice: “Il futuro è già qui!”. E gli spettatori non si rendono conto che il discorso li riguarda molto da vicino. Come la Cassandra della mitologia greca oggi l’intero mondo, Cina compresa, ed escluse alcune realtà del tutto marginali, come gli indigeni delle Isole Andamàne, quella parte delle Andamàne che non siamo riusciti a ‘civilizzare’, crede in un futuro migliore del presente. Siamo colmi di speranze. Eppure Nietzsche ha scritto: “In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della ‘storia del mondo’: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire…Quando tutto ciò sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole” (La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, Friedrich Nietzsche).

 

18 marzo 2025, il Fatto Quotidiano

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C’era una volta il “medico di famiglia”. Quello che oggi si chiama medico di base. Ma fra i due c’è una differenza abissale. Il medico di famiglia conosceva non solo la storia del paziente, la sua anamnesi, i precedenti, ma anche quella dei suoi familiari, per questo appunto si chiamava medico di famiglia. Si poteva anche farlo venire a casa e il medico arrivava subito senza problemi. Il corpo del malato era il solo strumento della sua conoscenza poiché la Tecnica non era ancora arrivata alla diagnosi a distanza. Respirava sul corpo del paziente. Quando ero ragazzino il mio medico era ovviamente un pediatra, il dottor Soletti. Era un uomo molto piccolo, non però con le fattezze del nano, e aveva pensato bene di occuparsi di bambini. Lo tenni anche quando diventai adulto, gli bastava un’occhiata per capire cosa avevo o più spesso cosa non avevo. Da giovane ero ipocondriaco (adesso lo sono molto meno, se non sarà questa volta sarà la prossima) e quindi lo chiamavo molto spesso. Un pomeriggio, da bambino, fui colto da dolori intestinali violentissimi. Mia madre si spaventò e chiamò Soletti. Arrivò e gli bastò chiedermi che cosa avevo mangiato. Avevo mangiato dodici albicocche che naturalmente nell’intestino sprigionavano gas. E il caso fu così risolto. E’ noto che la vicinanza, anche fisica, del medico e la fiducia in lui è già l’inizio di una cura. Oggi la vicinanza c’è quasi sempre, anche se non sempre, con gli strumenti tecnologici.

Soletti era anche un buon psicologo. Sul letto di morte mi confessò che le poche medicine che mi aveva dato, poche perché rifuggiva dalla medicina chimica (sosteneva che se tu introduci della chimica nel corpo il corpo prima o poi si ribella e il male salta fuori da qualche altra parte) erano in realtà dei placebo. Direi che aveva un concetto orientale della medicina. In Occidente si sa tutto, poniamo, della mano non tenendo però conto non solo del corpo ma anche della psiche del paziente.

La professione del medico, che non essendo un mestiere come un altro dovrebbe essere una vocazione, come del resto quella del magistrato, ha perso appeal sia in senso soggettivo che oggettivo. Non è esaltante ridursi a un burocrate che compila prescrizioni, che invia poi via mail, senza aver mai visto in faccia il malato. E’ la burocrazia che come sempre, o quasi sempre, complica le cose, da qui le interminabili liste di attesa. Una mattina facevo la fila in non so quale Asl, davanti a me c’era un uomo sulla cinquantina. Sentii che il medico, o forse era solo un impiegato, gli fissava un intervento a sei mesi di distanza. Ma in sei mesi quello faceva in tempo a morire.

Ho una domestica rumena e i suoi amici che possono permetterselo vanno a curarsi a Timisoara o a Bucarest non perché i medici rumeni siano migliori di quelli italiani, i medici italiani, soprattutto nelle specializzazioni, sono bravissimi (vedi Niguarda che è al 37esimo posto fra i migliori ospedali del mondo) ma perché evitano le lunghe code burocratiche magari sganciando qualche sacrosanto euro in più.

E’ anche vero che durante il Covid i medici hanno perso molto della loro credibilità, perché ogni specialista, divenuto una star televisiva, diceva l’esatto opposto di un altro specialista. E a tutt’oggi non è ancora certo se i vaccini abbiano risolto la questione, o attraverso ‘danni collaterali’ spesso pesantissimi, l’abbiano peggiorata. Del resto quei vaccini furono fatti in fretta e furia. Per avere un vaccino veramente efficace contro la poliomielite, terrore della mia infanzia, ci sono voluti più di dieci anni, prima il vaccino di Salk e poi qualche anno dopo quello, definitivo, di Sabin.

Si capisce che per il Covid-19 il governo italiano sia stato colto di sorpresa perché l’Italia fu la prima a dover fronteggiare il virus proveniente dalla Cina (secondo alcuni ‘complottisti’ fu elaborato in vitro dai cinesi). Però in Svezia hanno fatto i vaccini ma non hanno imposto l’ancor più insidioso lockdown. La ministra della Sanità svedese Lena Hallengren affermò a suo tempo che i conti si sarebbero fatti alla fine e anche qualche anno dopo la fine. E infatti molti ragazzi italiani sono rimasti traumatizzati dal lockdown, non potendo sfogare in alcun modo la loro giovanile energia, e oggi se ne vedono le conseguenze. Si dirà che in un Paese come la Svezia di grandi dimensioni, con poche città con una densa popolazione, il lockdown era superfluo, comunque la Svezia, è un fatto, ha avuto proporzionalmente molti meno morti di noi. Ma anche la Svizzera, che ha un’alta densità di popolazione in un territorio circoscritto, e che non ha fatto lockdown, ha avuto, proporzionalmente, meno vittime dell’Italia. E lasciamo pur perdere, per pietas, le speculazioni che hanno fatto le case farmaceutiche, anglo-americane e olandesi.

Ma poi c’è anche una questione di cultura generale. Nevrotici e ipocondriaci quali siamo diventati al minimo malessere ricorriamo al medico, più spesso al medico virtuale che a quello in carne e ossa. Questo smista la faccenda ai laboratori e quindi anche qui c’è l’intasamento e il responso per un semplice esame del sangue arriva dopo una settimana e più. Poi c’è quello, ancora più grave, del Pronto Soccorso dove dovrebbero arrivare solo soggetti in pericolo di vita e invece viene intasato dagli ipocondriaci. Attualmente solo il 44 per cento degli ospedali hanno il Pronto Soccorso. E se un poveraccio abita lontano da uno di questi ospedali? E quali sono anche qui i tempi di attesa che, per ovvie ragioni, dovrebbero essere immediati? “Quanto tempo passa fra l’arrivo al Pronto soccorso e l’intervento del medico di guardia?” chiede la solerte cronista al primario. “Il tempo di morire”.

 

14 marzo 2025, il Fatto Quotidiano