Questa storia del Milan il cui campo è stato squalificato per un turno per 'discriminazione territoriale' perchè a Torino, durante la partita con la Juve, i tifosi rossoneri cantavano cori antinapoletani («Noi non siamo napoletani», embè?) non è solo grottesca, è pericolosa. Perchè in questa società che nella sua smania di 'politically correct' tende a reprimere tutti gli istinti e anche i sentimenti, come l'odio (vedi tutti i reati liberticidi previsti dalla legge Mancino cui adesso si è aggiunta anche l'omofobia per cui uno non puo' più dare del 'finocchio' a un finocchio senza andare in galera) a favore di un'astratta razionalità, ci si è dimenticati che l'aggressività fa parte della vitalità e che volerla eliminare del tutto ha gravi conseguenze. La prima è di svilirizzare un popolo. E questo è il motivo per cui noi ci troviamo tanto in difficoltà con gli immigrati soprattutto di origine slava che la violenza ce l'hanno, beati loro, nel sangue («Un po' di violenza non fa mai mal/leggi un romanzo di Mickey Spillane» era uno slogan di anni un po' meno codini dei nostri). La seconda è che a furia di reprimerla l'aggressività poi esplode in forme mostruose, molto meno innocue di un coro da stadio. Tutte le culture che hanno preceduto la nostra lo sapevano e il loro sforzo è stato quello di canalizzare la violenza in modo da poterla controllare e tenerla entro la soglia di una ragionevole tollerabilità. I neri africani, maestri del genere prima che l'Occidente ne violentasse le culture, si erano inventati la guerra 'finta' (chiamata fra i Bambara rotana per distinguerla dalla diembi la guerra vera), levando le alette dalle frecce in modo da rendere il tiro impreciso e innocuo, la festa orgiastica. Fra gli Ashanti, tribù, un tempo, molto bellicosa, c'era una settimana in cui tutti potevano insultare a sangue chiunque, anche il re, senza conseguenze. Poi tutto rientrava nella normalità. In fondo anche il Carnevale europeo, finchè è stato tale, aveva questa funzione di sfogo. Fra i Greci il meteco, il 'capro espiatorio' che veniva sacrificato quando in città si creavano tensioni pericolose, aveva il significativo nome di pharmakos.
In tempi moderni lo stadio aveva fra le sue funzioni, non marginali, quella di canalizzare e rendere sostanzialmente innocue l'aggressività e la violenza che devono essere, entro certi limiti, tollerate, sugli spalti e in campo. Altrimenti si finisce con 'i delitti delle villette a schiera' come li chiama Ceronetti. In Sampdoria-Torino ho visto l'arbitro, Gervasoni, appioppare otto ammonizioni per contrasti che un tempo non sarebbero stati considerati nemmeno falli. Il campo di calcio è stato trasformato in una sorta di 'tea party'. La Tv ha completato il tutto (sono stati quei morbosi segaioli di Sky a cogliere un coro che nessuno aveva sentito). Un calciatore che ha ricevuto un pestone tremendo non puo' nemmeno urlare una sacrosanta bestemmia, che l'arbitro non ha sentito o ha saggiamente ignorato, che, zac, la moviola la traduce sul labiale. La Tv ha invaso il sacrario. Basta, via, raus, foera de ball. Ridateci il calcio di una volta. «Un po' di violenza non fa mai mal».
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2013