Si chiama 'affecting computing', è un software messo a punto da due società americane che grazie a degli algoritmi analizza 22 punti del volto e «legge» i sentimenti di una persona al di là di quanto vuol far pparire. Per il momento questo software è utilizzato dalle industrie per capire dalle espressioni dei consumatori il gradimento dei loro prodotti e l'efficacia dei messaggi pubblicitari, ma è destinato a essere applicato nei più vari settori. In più l' 'affecting computing', combinandosi con un'altra recente invenzione, i 'Google glass', occhialini-computer, permetterà a chiunque di vederci senza maschera, senza difese, nudi come lo dovremmo essere solo il giorno del Giudizio.Addio al vecchio gioco della seduzione. L'eterno dubbio maschile «ci sta o non ci sta?» non avrà più ragione d'essere. Ai tempi miei i codici erano meno algoritmici anche se, forse, meno precisi. Se, ballando, lei ti metteva il braccio sul petto era niet, se sulla spalla il messaggio era neutro, se intorno al collo potevi coltivare qualche speranza, se ti permetteva il 'cheek to cheek' («Il ballo del mattone» cantato da Rita Pavone) voleva dire che eri autorizzato ad andare più in là senza peraltro avere nessuna certezza (Dio benedica l'ambiguità femminile che nessun algoritmo riuscirà mai a ridurre alla ragione).
La Scienza tecnologicamente applicata sta cercando di ridurci a dei chip. Se 'affecting computing' prenderà piede il futuribile 'Blade runner' sarà già passato. Saremo tutti dei replicanti (del resto i neuroscienziati dell' 'Albert Einstein' di New York si sono già incaricati di farci sapere, attraverso lo studio di una particolare molecola, NF-kB, la nostra 'data di scadenza' com'era per i replicanti del film di Ridley Scott). Tuttavia io continuo a credere (con Eraclito) che l'intuito sia più importante di qualsivoglia algoritmo. Sono stato, per mestiere, in luoghi assai pericolosi, la casbah di Alessandria d'Egitto, il cimitero dei Mamalucchi al Cairo, a Soweto nell'era dell'apartheid, sul bus della Putco, unico bianco, che mi portava ad Alexandra un ghetto nero di Johannesburg ancora più degradato di Soweto. Me la sono cavata anche senza 'affecting computing' e gli occhialini di Google, cercando di capire chi mi stava attorno, senza fare lo stronzo. Anche di recente il vecchio intuito da reporter mi ha dato una mano. Milano di notte, fra un quartiere scintillante e l'altro, è terra di nessuno. Camminavo, verso le due, in una di queste strade deserte quando ho visto venirmi incontro tre ragazzi con la chiara intenzione di aggredirmi. Davanti marciava il capo, chiamiamolo Griso, i due bravi un passo indietro. Quando sono stati vicinissimi ho notato sulle labbra del Griso una leggera increspatura di incertezza. Ho fatto finta che mi volessero chiedere una sigaretta. Il Griso ha allargato le braccia a fermare i compagni. E' finita a tarallucci e vino. «Vuoi della coca?» mi ha chiesto alla fine il capo. «Non fa per me, e anche tu vacci piano» ho risposto dandogli un buffetto sulla guancia. Se avessi avuto gli occhialini di Google mi avrebbero massacrato di botte e rapinato (anche dei Google, giustamente).
La Scienza sembra impazzita. L'ultimo grido è «il microcervello creato in provetta». Tutto cio', occhialini Google compresi, si chiama 'realtà aumentata'. Io penso invece che dovremmo dirigerci verso una 'realtà diminuita'. Vorremmo restare uomini fra gli uomini. Non diventare macchine fra macchine.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 6 dicembre 2013