E' ripreso dopo sette anni il processo ad Alberto Stasi assolto in primo e secondo grado dall'accusa di aver ucciso la fidanzata, Chiara Poggi, la mattina del 13 agosto 2007. La Cassazione ha infatti rinviato gli atti alla terza Corte d'Assise d'Appello di Milano perché riformuli il giudizio. Quello della Cassazione dovrebbe essere un mero controllo di legittimità, dovrebbe cioè verificare che il processo si è svolto secondo le forme previste dalla legge. Invece la Cassazione è entrata nel merito indicando otto punti in cui gli accertamenti dei giudici di primo e secondo grado non sono stati, a suo dire, convincenti. Il professor Angelo Giarda, difensore di Stasi, ha osservato: «E' stato rifatto il processo invece di parlare delle sole questioni di legittimità». Sono ormai anni che la Cassazione travalica i limiti della propria funzione. L'Italia è quindi l'unico Paese al mondo ad avere tre gradi di giudizio di merito (Gli altri hanno un giudizio di merito e l'altro di mera legalità. Stop). Ma, nel caso di Stasi, come in mille altri casi, la storia non finisce qui. La nuova sentenza della Corte d'Appello di Milano dovrà tornare al vaglio della Cassazione la quale, se non convinta, potrà rispedirla a un'altra Corte d'Appello il cui giudizio passerà sotto il controllo della Cassazione la quale, se non convinta, la rispedirà ad un'altra Corte d'Appello la cui sentenza dovrà essere nuovamente avallata dalla Cassazione e così via in un processo teoricamente all'infinito. Dico 'teoricamente' ma potrei dire praticamente. In Italia ci sono processi che si concludono dopo vent'anni, altri che rimangono aperti 'ad aeternum'. Si sta ancora indagando sulla strage di piazza Fontana del 1969, su quella di piazza della Loggia, a Brescia, del '74, sul delitto Moro del 1978 (Qualche tempo fa mi convocò in Questura, a Milano, un funzionario della Digos, l'ispettore Cacioppo, per interrogarmi sulla strage di Brescia. Quando si fu convinto che non ne ero l'autore nè il mandante e nemmeno un utile informatore gli dissi: «Ma possibile che un bravo ispettore come lei debba essere ancora applicato a delitti di 40 anni fa?»).
Nel nostro Paese bizantino ci si è dimenticati che la giustizia deve essere rapida e le pene certe. E che le due cose sono legate fra di loro. Il diritto non può avere la pretesa di arrivare a una Verità assoluta, che appartiene solo a Domeneddio, se mai esiste («Se c'è si è nascosto molto bene» ha detto Baudelaire), ma ha la funzione di mettere dei punti fermi nei rapporti, civili e penali, fra cittadini. Non si può restare vent'anni senza sapere se, dal punto di vista giudiziario, un cittadino è un criminale o un innocente. Perché se è innocente vuol dire tenere una persona sulla graticola per buona parte della sua vita, rovinandogliela, se è un criminale nel frattempo può commettere ogni sorta di delitti.
La pena non deve essere feroce nè, tantomeno, 'esemplare' com'è stata definita quella comminata a Luca Varani il vetrolieggiatore della sua ex fidanzata, perché nel nostro diritto, a differenza di quello inglese basato sulla 'common law', la magistratura non fa le leggi deve solo giudicare, di volta in volta, su un caso concreto. Le pene, eque, devono essere certe. In Italia non c'è nulla di più incerto della pena. Quante volte abbiamo sentito di pregiudicati che hanno commesso un delitto? Ma non dovrebbero essere al gabbio? Invece grazie a indulti, amnistie, sconti, benefici vari sono a piede libero. Questo per la micro e media criminalità. In quanto ai politici criminali e ai criminali finanziari per loro vige, come per i nobili dell'ancien régime, un diritto particolare. Ce n'è addirittura uno che viene ricevuto in pompa magna al Quirinale.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 11 aprile 2014