«Garantire la Costituzione significa affermare e diffondere un senso forte della legalità. La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute. La corruzione ha raggiunto un livello inaccettabile». A parte l'incongruenza di aver invitato alla cerimonia del suo insediamento un detenuto, che non è certamente un esempio di «un senso forte della legalità», questo mi è sembrato il passaggio più importante del discorso del nuovo Presidente della Repubblica. La corruzione infatti, e non la Magistratura come sosteneva il Detenuto Eccellente, è il vero cancro della nostra società. Non intendo qui unirmi al coro demagogico di coloro, giornalisti e grillini in testa, che, confondendo cose completamente diverse, si indignano per i costi del Quirinale, gli alti stipendi dei parlamentari, le auto blu e i privilegi di cui godono nel campo dei trasporti gli amministratori pubblici (il tempo è un bene prezioso per tutti, ma lo è in particolare per chi ha responsabilità pubbliche, doveri di rappresentanza e di incontri estenuanti, per questo ho trovato ridicoli o comunque sproporzionati gli scandali menati perché il sindaco di Roma, Marino, aveva fatto sette infrazioni stradali senza pagarle o perché il premier Renzi ha portato la famiglia in vacanza su un aereo dell'aereonautica militare). Ho sempre pensato che gli amministratori pubblici debbano essere pagati bene, anche per sottrarli alle tentazioni. Ma proprio per questo se sgarrano, se rubano, applicherei la giustizia talebana: taglio delle mani e, nei casi più gravi, anche di un piede. Capisco che queste pratiche non possono essere utilizzate da noi, anche perché ci troveremmo con un Parlamento di moncherini e di monopede. Però ci vogliono pene, non particolarmente feroci (perché le pene troppo severe fanno la fine delle 'grida' di manzoniana memoria: non vengono applicate) ma certe. Altrimenti, come ha detto Raffaele Cantone, chiamato a tamponare le megatruffe sull'Expo, «il rischio è talmente aleatorio che vale la candela della possibilità di arricchimenti enormi». So bene che gli alti stipendi, le auto blu, irritano i cittadini, per la loro evidenza, ma sono una pagliuzza rispetto a quanto ci costa la corruzione i cui danni sono più sotterranei e meno visibili ma ben più devastanti. Se oggi abbiamo quell'enorme debito pubblico che ci mette in difficoltà in Europa non è certo per le auto blu ma a causa della corruzione che solo con la prima Tangentopoli ci è costata 630 miliardi delle vecchie lire (quella che va dai vent'anni che corrono dal 1994 ad oggi non è stata ancora calcolata).
Ma il danno non è solo economico. Ancora più grave è quello morale. La corruzione della classe dirigente discendendo giù per li rami è diventata un'epidemia che coinvolge l'intera popolazione. Se l'esempio che viene dall'alto è questo – ragiona il 'very normal people' – perché proprio io dovrei essere l'unico fesso? E questo rompe la fiducia fra di noi e, con essa, quel senso della comunità cui giustamente, quanto utopisticamente, Mattarella si è richiamato. Che senso della comunità posso avere quando non so mai se chi mi sta di fronte è una persona perbene o un furbacchione? Su questo versante una bella mano l'ha data Matteo Renzi. Perché accanto alla corruzione materiale ce n'è una intellettuale, a volte ancor più remunerativa. Se in un bar uno dicesse all'amico «stai sereno» e due giorni dopo gli rubasse il posto, non potrebbe metterci più piede. Invece nelle Istituzioni, quelle che, secondo Mattarella, dovremmo rispettare, si viene premiati. E' l'apoteosi della furbizia, uno dei mali endemici, insieme alla retorica, del popolo italiano. E non ci può essere di consolazione che anche il più furbo dei furbi alla fine trova uno più furbo di lui, che lo frega. Perché la sostanza non cambia. Anzi si aggrava.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 6 febbraio 2015