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Quando, nel 1988, compii 45 anni li confrontai con quelli di mio padre, nato nel 1901. Lui aveva vissuto la prima guerra mondiale, l'avvento del fascismo, l'esilio in Francia, la seconda guerra mondiale, il tracollo del regime, la guerra civile, la caduta della monarchia, l'avvento della Repubblica. Nella sua vita era successo di tutto, ma non era cambiato niente: i valori, ottocenteschi, erano rimasti quelli di quando era nato e i modelli, i costumi e, in buona sostanza, anche i modi di vivere erano mutati di poco. Per la mia generazione -sono del 1943- e tutte quelle successive è stato esattamente l'opposto: non è successo niente ma è cambiato tutto, valori, modi, etica, modelli, costumi, way of life. Mio padre e i suoi coetanei si sono trovati a vivere eventi fondanti che li hanno costretti a delle scelte. Sono stati, in maggiore o minor misura, protagonisti delle loro vite. Noi gli enormi cambiamenti avvenuti nell'arco della nostra esistenza li abbiamo vissuti passivamente, sono passati sopra le nostre teste. Si può dire sì o no al fascismo, sì o no al nazionalismo, sì o no alla guerra, non si può dire sì o no alla tecnologia o alla globalizzazione. Non sono eventi, sono processi inarrestabili che si insinuano nelle nostre vite, le avvolgono e le determinano senza che ci si possa far nulla. La Tecnologia e la sua ancella gemella, l'Economia -la globalizzazione non è altro che la sua espansione totalitaria- in un processo prima quasi impercettibile poi sempre più vorticoso e parossistico hanno via via preso il centro della scena relegando l'uomo in una posizione marginale, subalterna.

Ma nell'immediato dopoguerra le cose non stavano ancora così. Al contrario. Scrive Nietzsche che «ogni malattia che non uccide il malato è feconda». La guerra ci aveva dato, senza che ne fossimo pienamente consapevoli, alcune rendite di posizione. Quando arrivai a Milano nel 1946 la città era un cumulo di macerie. Le facciate delle case, con le occhiaie vuote delle finestre, erano delle quinte di teatro, dietro non c'era niente. La città era un brulicare di gente stipata fino all'inverosimile sui tram, appesa pericolosamente ai predellini, qualcuno attaccato al trolley (oggi interverrebbe la volante). Ma chi era scampato ai bombardamenti angloamericani o ai rastrellamenti tedeschi non aveva certo paura di farsi la 'bua' cadendo dal tram. Eravamo allegri e incoscienti perché per esserlo ci bastava d'esser vivi.

A parte una sottilissima striscia di borghesia che aveva il buon gusto e il buon senso di non ostentare, eravamo tutti poveri, infinitamente più poveri di quanto non lo si sia oggi. Ma essere poveri dove tutti lo sono non è un problema, una volta che si abbia un tetto, da mangiare e da vestire. E questo noi ce l'avevamo, anche se in termini striminziti e dovevamo arrangiarci. Non c'era ancora lo strazio degli status symbol, dell'invidia, della frustrazione. La povertà ci rendeva solidali. Nei quartieri di una metropoli, nelle cittadine, nei villaggi contadini eravamo una comunità solidale. Alcuni valori di base, preideologici, prepolitici, prereligiosi, onestà, dignità, rispetto, erano di tutti, tranne che per una malavita quasi patetica che aveva comunque i suoi codici d'onore conservati almeno fino all'epoca di Vallanzasca compreso. Prendiamo l'onestà. Era un valore per tutti. Per la borghesia perché, se non altro, dava credito, per il mondo contadino dove violare la stretta di mano voleva dire essere esclusi dalla comunità, e anche per quello proletario dove la dura morale comunista non ammetteva deroghe personali. Ma anche gli imprenditori erano diversi. Gli Olivetti, i Pirelli, i Borletti, i Rizzoli, i Borghi volevano certamente fare i quattrini, ma anche in loro c'era un residuo di valori umanistici ottocenteschi, un po' paternalistici ma certamente meno disumani. Poi sono arrivati i manager.

Il vero cambiamento è arrivato durante gli anni del boom economico, senza che quasi ce ne accorgessimo. All'inizio fu esaltante per chi aveva pedalato sempre in salita, imboccare un po' di discesa. Era l'agognato benessere. Ma nascondeva molte insidie. E' stato il benessere a corromperci moralmente, a indebolire tutti i nostri valori, a infiacchirci, sospettosi gli uni degli altri, a rompere, là dove c'era, il senso di essere una comunità.

Nel 1960, a 16 anni, entrai per la prima volta, con il mio amico Giagi, in un Supermarket. Ci parve il Paese di Bengodi. Era invece il cavallo di Troia che entrava in città e avrebbe distrutto, per sempre, la nostra innocenza.

Massimo Fini

Monologo recitato alla trasmissione di Pino Insegno all'interno di Domenica In, domenica 31 maggio 2015