Intervista per Il Giornale.it
“Guardando in questa direzione un tempo vedevo le alpi, ora solo grattacieli. Mi manca la mia vecchia Milano”. Dalla sua casa foderata di libri Massimo Fini guarda fuori dalla finestra verso l’orizzonte e, con un bicchiere di vino rosso in mano e una sigaretta tra le labbra, riflette e tenta di tirare un bilancio sulla propria vita. Una vita passata tra inchieste, ricerche, libri e avventure, fatta di scoperte e provocazioni che lo hanno reso una delle penne più controverse e dibattute del giornalismo italiano degli ultimi decenni. Da qualche mese, però, Fini ha abbandonato il lavoro giornalistico e, senza volerlo o richiederlo, si sta dedicando a ricevere i premi che il mondo politico e culturale nazionale gli stanno elargendo. L’ultimo in ordine di tempo, e forse il più prestigioso, è l’Ambrogino d’oro, la massima onorificenza concessagli dal Comune di Milano su richiesta dei consiglieri Igor Iezzi e Luca Lepore e del consigliere di zona Vincenzo Sofo. “Abbiamo proposto Massimo Fini come candidato all’Ambrogino d’oro perché è una figura intellettuale non conforme e per questo sempre tenuta ai margini dal mondo istituzionale, le cui idee meritano però di essere ascoltate dagli amministratori di Milano, una città che in pochi conoscono e capiscono profondamente come lui” spiega Sofo. “Quella di cui lui parla è una Milano che non sia un semplice contenitore di persone, ma una comunità fondata sulle diverse identità dei quartieri, una città più umana e a misura d’uomo, ciò che in fin dei conti ogni milanese sogna ma non sa come realizzare. E Massimo Fini è la persona ideale per spiegarlo”. Una Milano diversa da quella odierna, amata e sognata da molti cittadini. Questo è almeno quello che pensano diversi esponenti politici, che per questo ascoltano Fini avere degli spunti su cosa proporre al proprio elettorato. Se i suoi consigli trovassero applicazione politica la città probabilmente cambierebbe anima nel giro di poco tempo, tornando ad assomigliare alla vecchia Milano che lui tanto ama.
Dottor Fini, il Comune ha deciso di concederle l’Ambrogino d’oro, la massima onorificenza cittadina. Dopo una vita passata in questa città, qual è il suo ricordo più bello legato ad essa?
E’ il ricordo di una Milano vissuta da persone più semplici ed ottimiste. La Milano del dopoguerra in cui sono cresciuto, una città rasa al suolo dalle bombe americane in cui però le persone avevano un’allegria e una fiducia nel futuro oggi inimmaginabile. I milanesi di allora erano semplicemente grati di non essere morti sotto le bombe e avevano imparato a stare bene con cose semplici e soprattutto sapevano essere comunità. In ogni quartiere c’era un controllo sociale spontaneo del territorio, una solidarietà genuina che ci portava spesso a fare a cazzotti per difendere i più deboli e non per umiliarli come troppo spesso avviene oggi. Anche nel confronto fisico c’erano delle regole non scritte che nessuno si sarebbe mai sognato di violare, per esempio quando durante una rissa qualcuno cadeva a terra non lo si poteva più toccare. Era una città fatta di tante comunità di quartiere che mantenevano però tutte una milanesità che ci accomunava.
E’ nella Milano di quegli anni che fiorisce un fenomeno di cui Lei si occuperà giornalisticamente per decenni: quello della malavita.
Sì, Milano era ricca di esponenti della vecchia mala milanese, la Ligera. Vallanzasca è stato l’ultimo di loro, dopo di lui tutto è cambiato. Io sono stato accusato più volte di giustificare o minimizzare la sua banda. Nulla di più falso. I criminali sono criminali e ciò va riconosciuto. Quello che faccio è semmai di paragonare la mala di allora con la criminalità di oggi. In quella di allora vigeva un senso di lealtà che era lo specchio malato di una società ottocentesca che oggi non esiste più. In una società senza dignità ed onore come quella odierna, invece, si crea una malavita anche lei senza dignità ed onore. Questo cambiamento lo hanno vissuto non solo le bande milanesi, ma anche la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, che vivono anche loro a Milano ma non si fanno vedere se non nel loro aspetto finanziario e rispettabile, che è quello che io più respingo.
Ci spieghi come sia stato possibile che la società italiana e milanese sia mutata così profondamente.
Tutto è cambiato col ’68. Ricordo bene quel periodo. Noi ragazzi eravamo la prima generazione che non era chiamata alla guerra e per questo sentivamo la necessità di un impegno forte, cercavamo una guerra che non c’era. Chi lavorava non aveva tempo per pensarci, ma i figli della borghesia sì e da loro nacque il movimento del ’68, composto da giovani borghesi che cercavano di cacciar via i vecchi borghesi loro genitori. I contatti tra questi sedicenti rivoluzionari e il mondo operaio erano pochi, perché la classe operaia aveva un’etica che non era lamentosa e, per quanto combattesse i padroni, spesso li rispettava se questi lo meritavano. Il lavoro era importante, ma non nevrotico e disumano come viene vissuto oggi. Prima delle contestazioni i padroni erano persone fisiche e umane, non i manager disumani e macchinosi di oggi. Col ‘68 le contrapposizioni vennero estremizzate, venne distrutta la solidarietà tra le persone e fu introdotta una fiducia estremista nella modernità. Da quel momento, per esempio, iniziò a scomparire il dialetto milanese, considerato poco edificante e dequalificante, quando in realtà era un elemento di identità e un linguaggio di comunicazione comune.
Da lì il passaggio agli anni di piombo fu breve.
Come visse Milano quel periodo? Non se ne rendeva conto di viverlo se non quando c’era il morto a terra. Io stesso non me ne accorgevo. Ricordo che la sera prima che venisse assassinato accompagnai a casa sua Walter Tobagi e mai mi sarei aspettato di rivederlo disteso a terra il giorno dopo. Sottovalutammo la pericolosità del fenomeno, perché come non avevamo preso sul serio i ragazzi annoiati del ’68 non prendemmo sul serio quelli che andavano in giro a gridare che “uccidere un fascista non è reato”.
Poi arrivarono gli Anni 80, la Milano da bere e poi ancora il ventennio berlusconiano.
La Milano da bere se la sono bevuta i socialisti che controllavano le televisioni. Negli ultimo 25 anni, poi, la televisione ha cambiato completamente l’immaginario collettivo e soprattutto i canoni femminili.
Un retaggio, quest’ultima cosa, figlia anche lei del ’68. Come ha visto cambiare il modo in cui oggi gli uomini si approcciano alle donne rispetto a come avveniva nella sua Milano?
Oggi il rapporto con l’altro sesso sembra più facile, ma vedo che i giovani hanno molte più difficoltà. La maggior parte delle donne, liberate dalla sobrietà che era loro caratteristica, sono diventate aggressive e spavalde nella proposta sessuale. Ciò spaventa molti maschi, tant’è vero che l’omosessualità aumenta vertiginosamente. Ma non solo. Negli uomini aumenta anche l’ansia, la paura e la passività, mentre diminuisce la loro virilità. Non è un caso, dunque, che quasi tutte le trentenni che conosco lamentino di non riuscire a trovare un compagno alla loro altezza.
La liberalizzazione dei costumi ha dunque introdotto enormi problemi tra i due sessi. Che cosa manca rispetto ad allora nel rapporto tra uomo e donna?
Il corteggiamento e la seduzione. Non bisogna sottovalutare quanto questi due elementi abbiano una potentissima forza erotica. La volontaria ritrosia delle donne nei confronti degli uomini, il linguaggio dei gesti, i primi contatti fisici, il lunghissimo gioco di sguardi e parole erano qualcosa che rendeva eccitante più che mai la fase di corteggiamento e per questo gli uomini erano spesso disposti a non demordere nelle loro avances per lunghissimo tempo. Il pensiero, il sogno, il desiderio e l’idealizzazione della donna che si corteggiava era qualcosa che ci rendeva molto più forti e determinati. Oggi invece l’esibizione sfrenata del nudo femminile fa spegnere la voglia.
L’attesa è dunque qualcosa che rafforza i legami.
Non c’è niente di più emozionante dell’attesa. Chiunque sia stato in una spiaggia di nudisti sa benissimo che il desiderio cresce la sera, quando le donne si rivestono e tu puoi finalmente iniziare a sognare cosa ci sia sotto le loro vesti. Il corteggiamento, poi, è la forma di attesa che stimola maggiormente il desiderio. E’ naturale quindi che in una società in cui le donne si concedono rapidamente cali il desiderio che gli uomini provano per loro.
Ezra Pound scrive nei Cantos: “Ciò che ami davvero rimane, il resto è scorie. Quel che ami davvero non ti verrà strappato. Quel che ami davvero è la tua vera eredità”. Cosa rimane dunque guardandosi indietro e ripensando alle proprie storie passate?
Se le storie sono state forti rimangono dentro di noi. Ogni donna è un mondo a sé e ognuna di loro ti porta dentro di esso, cosa che entra a far parte del percorso di crescita di chiunque abbia avuto diverse compagne. Che per questo non vanno cancellate o dimenticate. Ma al contempo non vanno ricercate o riviste. Rivedere una persona che si ha amato significa dover riconoscere che la passione che tanto ci aveva unito e fatto sognare non esiste più. Significa rovinare il bel ricordo di lei che serbiamo dentro di noi. Come canta De Andrè “l’amore che strappa i capelli è finito ormai”.
Luca Steinmann
Il Giornale.it, 25 novembre 2015