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Non è per pura malignità se celebro il novantesimo compleanno di Elisabetta II d’Inghilterra, passato quasi sotto silenzio, a spese del clamore suscitato dalla morte di Prince, due avvenimenti avvenuti, per l’imponderabile volontà del Caso, nello stesso giorno e al quale i media mondiali hanno dato un grandissimo spazio. Ma per senso delle proporzioni. Della funambolica ed esibizionista star di Minneapolis, tipica espressione dei nostri tempi, fra trent’anni non rimarrà che la polvere e forse un vago ricordo, Elisabetta II entrerà nella Storia e anzi vi è già adesso seppur ancora viva.

Confesso che ho sempre avuto una grande ammirazione e quasi un’autentica venerazione per Elisabetta. Solo una vera regina può portare quegli orribili cappellini démodé e quegli abiti color pastello, rosa, verde senza rendersi ridicola. E’ dotata di un autocontrollo eccezionale e di una resistenza fisica e nervosa che le consente ancor oggi di presenziare per ore a noiosissime cerimonie senza dar segni di insofferenza, di fastidio, di malumore, ma anche senza ridere perché a una regina con è consentito. In 64 anni di regno non le ho mai visto sbagliare un colpo. Tantomeno il giorno dei funerali di lady Diana che diedero, così grandiosi e insieme così composti, con i quattro uomini, Filippo di Edimburgo, Carlo e i due principini a seguire il feretro, la dimensione di un popolo. Il suo lieve ma percettibile inchino al passaggio della bara davanti a Buckingham Palace resta memorabile. Un inchino, ma diverso per tono e significato, lo vidi fare da Elisabetta a Milano quando, accompagnata dal presidente Ciampi, passò davanti alla Prefettura dov’era esposta la bandiera italiana. Il cafone livornese, colto di sorpresa, tentò tardivamente e goffamente di imitarla, riuscendo solo a sottolineare l’abissale distanza di stile.

Non credo che Elisabetta ami particolarmente il protocollo, il dover indossare a volte abiti paradossali e grotteschi come quello dell’Ordine della Giarrettiera, non poter manifestare in nessuna occasione pubblica le proprie opinioni politiche e nemmeno le sue emozioni. Di cui non è affatto priva come è ben mostrato nel film The Queen nel simbolico incontro col cervo nel parco reale, ma i suoi turbamenti deve tenerli per sé. Sa che il suo mestiere è quello di Regina e che è suo dovere onorarlo fino in fondo, senza potersi lasciar andare ai propri sentimenti. Che è quanto non aveva capito la povera Diana, ragazza dei nostri giorni, la cui tragedia si poteva leggere sul volto, dietro la veletta bianca, già il giorno delle nozze con Carlo.

Le limitazioni di un sovrano sono infinite. E’ un prigioniero di lusso. Perché è un simbolo e per un simbolo la forma è sostanza. La giornata di Elisabetta è costellata di impegni cui non può sottrarsi. Legge tutti i dossier che le arrivano dal premier, dai ministri, dagli ambasciatori, dai servizi segreti, dai governanti del Commonwealth, firma tutti i documenti, risponde personalmente o con l’aiuto delle dame di compagnia alle lettere, riceve visite, conferisce onorificenze a 150 persone per volta e deve prepararsi perché a ognuna deve saper dire qualcosa. In questo le stanno alla pari solo il Duca e la Duchessa di Kent che ogni anno presenziano alla finale di Wimbledon avendo una parola non solo per i vincitori ma anche per gli arbitri, i giudici di linea e ogni raccattapalle, ma la differenza è che i Duchi di Kent fanno solo questo in tutto l’anno. Di questi impegni protocollari la Regina ne ha circa 400 l’anno. L’unico sfizio che si concede è di precipitarsi la mattina appena alzata, alle 7 e 30, su Sporting Life, che tratta solo delle corse dei cavalli, passione ereditata dalla Regina Madre. Ma in fondo anche questa passione per i cavalli è perfettamente inglese (il principe Carlo ha una faccia assolutamente equina). La Regina Madre morta a 102 anni, che non aveva i doveri della figlia, poteva essere molto più sbarazzina. Scrive Richard Newbury in Elisabetta II: “Era l’unica privata ad avere un collegamento telex con tutte le corse con il Tote (il totalizzatore tramite il quale si effettuano le scommesse) e si sa che non le dispiaceva bere, di preferenza gin e Martini”. A questo proposito c’è un bel quadretto sempre nel libro di Newbury. La Regina Madre ed Elisabetta stanno sorseggiando un gin tonic. Finito il bicchiere la regina madre dice: “Ce ne facciamo un altro, Lilibet?”. “No, madre. Dobbiamo regnare, dobbiamo regnare”.

Fino a non molto tempo fa le piaceva guidare personalmente la sua Jaguar e, a quanto pare, guidava benissimo. Nel 1945, a guerra ancora in corso, fece il servizio militare in un corpo ausiliario e fu addestrata come autista. In fondo è una donna pratica. Dai gusti semplici (le piacciono i gialli, i programmi comici e i vecchi film). E’ una brava massaia. Attenta, risparmiosa, se non addirittura tirchia (ne sanno qualcosa i suoi ospiti nei vari castelli, gelidi, ed è la stessa Elisabetta ad abbassare personalmente i termostati).

Fra i compiti di una Regina c’è anche quello di fare figli. Lei ne ha sfornati quattro. Nessuno può sapere, tranne gli intimi, se Elisabetta è anche una donna intelligente. Ma un Re non è obbligato a essere intelligente. Deve saper fare il Re. E a me pare che Elisabetta II d’Inghilterra, pur regnando in tempi tanto diversi, sia una degna erede di suo padre, quel Giorgio VI che durante i devastanti bombardamenti tedeschi su Londra del 1942 restò ostentatamente nella capitale per infondere fiducia e coraggio ai suoi sudditi. God save the Queen.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2016