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L’intero Sessantotto visse molto di più sui giornali borghesi che nella realtà. Almeno fino a quando, col rapimento del giudice Sossi e il conseguente assassinio, due anni dopo del Procuratore generale di Genova Francesco Coco, le Brigate Rosse non passarono all’azione. Ma le Brigate Rosse non si ispiravano alla Rivoluzione cinese, bensì al mito della Resistenza italiana che con la Rivoluzione cinese, con tutta evidenza, non aveva nulla a che vedere. Fra gli innumerevoli gruppuscoli che nacquero nel Sessantotto, Movimento Studentesco, Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Manifesto, Potere Operaio, Lotta comunista, Quarta internazionale, situazionisti, commontisti, Gruppo Gramsci, Partito comunista italiano (m.l.), che detto per esteso significa Partito Comunista italiano marxista leninista, solo quest’ultimo, che all’inizio si chiamava Unione, si ispirava direttamente alla Rivoluzione cinese del 1966. Gli altri gruppi tendevano piuttosto a guardare a quella sovietica e sotto le mura della Statale di Milano, occupata dagli studenti, si poteva sentir risuonare il rabbrividente slogan “viva Stalin, viva Beria, viva la Ghepeu” ed era la prima volta che un movimento che si diceva rivoluzionario inneggiava alla polizia e, più precisamente, alla polizia politica di cui il sanguinario Lavrentiy Beria era stato il capo.

Il Partito Comunista italiano (m.l) nacque a Milano nel ’68 dalla fusione dei gruppi Falce e martello e Bandiera Rossa. L’Unione dei marxisti e leninisti ebbe brevi momenti di splendore, seguiti da un rapidissimo declino. Fu l’unico dei gruppi a ricevere quattrini dalla Cina e il suo capo fu ospitato dal Presidente Mao (cosa che rendeva verdi di rabbia i leader degli altri gruppuscoli). Gli emmeelle vivevano nel culto di Mao. Il maoismo vi era inteso come dogma e ripetizione talmudica. La stessa struttura dell’Unione non era che la riproduzione esatta e pedante del partito comunista cinese. All’interno dell’Unione c’era, come in Cina, una lega delle donne, una lega dei giovani pionieri, una lega degli anziani. Il lavoro dei marxisti-leninisti era esclusivamente di propaganda. Il concetto era infatti che il Partito era la Verità e la Verità non ha bisogno d’altro che di essere diffusa. Cosa che a ben guardare non si discosta molto dalla cosmologia cui si ispirano Al Baghdadi e i suoi uomini, con la differenza che costoro si battono mentre i marxisti-leninisti erano violentissimi a parole ma pressoché innocui quando si trattava di passare all’azione. Vivevano su un altro pianeta. Il pianeta di Mao. Per diffondere il loro Verbo utilizzavano un giornale quotidiano murale e il settimanale Servire il popolo che aveva una discreta diffusione. Il Partito si finanziava attraverso una autotassazione dura ed esigente. Una compagna che aveva ricevuto una eredità di 50 milioni fu espulsa per averne devoluti solo 15 al Partito. A Milano i militanti erano circa 2.500 e il capo nazionale si chiamava Luca Meldolesi, un operaio che aveva scritto un libro su Forza lavoro e mercato. Dominata da un moralismo forsennato e infantile l’Unione era nota più che altro per aver toccato, ed abbondantemente superato, i limiti del grottesco con i suoi matrimoni marxisti-leninisti. Io assistetti a Firenze a una di queste cerimonie: era una triste parodia, senza un lampo di fantasia o di originalità o di intelligenza, dei matrimoni dei comuni e odiatissimi borghesi.

L’unico intellettuale di grido che si fece attrarre da questo maoismo di risulta fu il sempre molto generoso ma anche molto ingenuo Dario Fo. Mi ricordo che una volta alla Palazzina Liberty esaltò il fatto che i cinesi su un fiume (non ne rammento ora il nome) avevano organizzato, per deviarlo, una diga umana. Il buon Dario non si rendeva conto che stava facendo l’esaltazione della schiavitù.

In realtà il maoismo penetrò in Italia non direttamente dalla Cina ma attraverso la guerra del Vietnam dove i vietcong stavano dando filo da torcere agli americani e nel 1975 li cacciarono. Mi ricordo un editoriale del Corriere della Sera firmato da Giuliano Zincone, che seguiva estasiato le manifestazioni pro-vietcong, che prendeva il titolo da una frase del testo che diceva: “Il Vietnam vince perché spara”.

Conclusa la guerra del Vietnam e passati alcuni furori il nome di Mao Tse-tung divenne, più correttamente, Mao Zedong. E fu la fine dell’influenza del comunismo cinese in Italia. La Cina non era più vicina. O forse era diventata troppo vicina e simile a noi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2016