Non credo affatto che l’attentato di Gaziantep sia dell’Isis. Non solo, e non tanto, perché l’Isis, che punta a mettere il suo cappello anche sull’incendio di un pagliaio, non l’ha rivendicato, come non ha mai rivendicato nessun attentato avvenuto in territorio turco, ma perché nella estremamente complessa situazione mediorientale dove tutti sono, almeno in apparenza, contro l’Isis e l’Isis è contro tutti, il movimento indipendentista curdo è l’ultimo che può interessare gli uomini di Al-Baghdadi (anzi gli fa gioco perché contribuisce ad alimentare il caos in cui l’Isis sguazza) così come poco gli interessa colpire la Turchia che a lungo ha fatto il doppio gioco, e probabilmente continua a farlo, fingendo di combattere Isis ma in realtà per picchiare più comodamente sui curdi. Tra l’altro sul fronte siriano curdi e guerriglieri di al-Nusra (una dependance dell’Isis) sono oggettivamente alleati perché combattono, insieme agli altri insorti, contro il regime di Assad, sia pur per motivi diversi. I curdi per riprendersi una parte del proprio territorio occupato arbitrariamente dalla Siria, i jihadisti per cercare di sfondare su quel fronte o quantomeno per tentare di ritardare l’avanzata della coalizione anti-Isis verso il territorio del Califfato. È anche vero però che nel generale rimescolamento delle carte i peshmerga curdi e i pasdaran iraniani combattono in Libia contro Isis. E in Libia i curdi non hanno interesse alcuno. È un generoso regalo che i curdi, straordinari combattenti ma politicamente sprovveduti (basta pensare alle loro decennali divisioni interne fra il PKK di ispirazione comunista e gli altri indipendentisti che oggi sono riuniti sotto la sigla TAK) fanno all’Iran che li ha sempre massacrati (la prigione di Evin, a Teheran, è sempre stata piena di detenuti curdi) e agli americani che pure li hanno sempre osteggiati in funzione dell’alleato turco.
Tuttavia io penso che quello di Gaziantep sia un auto attentato organizzato da Erdogan che, come abbiamo visto, è ormai capace di tutto. In primo luogo perché lo pensano gli stessi curdi di Gaziantep che dopo l’attentato hanno gridato “assassino, assassino” riferendosi a Erdogan e alla delegazione del suo partito (AKP). Inoltre perché molto sospetta la precipitosa attribuzione, da parte di Erdogan, dell’attentato all’Isis che gli permette di continuare nel doppio gioco di fingere di combattere Isis per poter colpire con mano libera, e meno decifrabile, i movimenti indipendentisti curdi. Perché per la Turchia il vero pericolo non è né Assad né Isis, ma sono i circa 12 milioni di curdi che vivono al suo interno, che bramano l’indipendenza e che da sempre sono repressi nel modo più brutale dal governo di Ankara. Ed è una delle vergogne del governo D’Alema l’aver consegnato il leader del PKK Ocalan, che si era rifugiato a Roma chiedendo un asilo politico che gli era dovuto, alla Turchia e alle sue famigerate prigioni in cui è tuttora rinchiuso (qualcuno ricorderà forse lo splendido film Fuga di mezzanotte).
In realtà una parte del caos mediorientale, e non solo, si potrebbe spiegare con la politica anti curda del governo di Ankara sostenuto in questo dagli Stati Uniti. Per molti decenni la Turchia è stato l’alleato privilegiato degli americani nella regione, molto più dell’Europa, sia per la sua posizione geografica e orografica (è una grande portaerei naturale in mezzo al Mediterraneo e gli USA vi mantengono tuttora, anche se i legami si sono fatti più complicati, la fondamentale base aerea di Incirlik).
Nel 1988 Saddam Hussein, allora cripto alleato degli Stati Uniti, ‘gasò’ in un sol colpo nella cittadina curdo-turca di Halabaya cinquemila civili e quel gas gli era stato fornito, oltre che dalla Francia e, via Germania Est, dall’URSS, dagli stessi Stati Uniti. E che cosa fecero gli americani, questi riparatori di torti, questi giustizieri della notte, questi scrupolosissimi difensori della legalità internazionale, questi vessilliferi dell’ordine morale? Fecero finta di nulla. Spiegò allora il giornalista Safire del New York Times: “Parte del compenso per la collaborazione di Ozal (allora il premier turco, ndr) nel concederci una base aerea consiste nella garanzia che non avremmo incoraggiato il nazionalismo curdo. Probabilmente gliela abbiamo data: svendere i curdi, anche dopo Halabaya, è una specialità del Dipartimento di Stato americano”.
Anche la inesplicabile e illegittima guerra alla Serbia di Milosevic per il Kosovo si può spiegare (oltre che con la volontà di togliere di mezzo l’ultimo stato paracomunista rimasto in Europa) in funzione pro Turchia. Era intenzione degli americani di creare nei Balcani una striscia di musulmanesimo moderato (Kosovo + Bosnia + Albania) a favore della Turchia, laica ma anche musulmana sia pur all’acqua di rose. Come dalla guerra all’Iraq del 2003 anche questa operazione gli è girata in culo, agli americani e soprattutto a noi europei: oggi in Kosovo, in Bosnia, in Albania ci sono basi (Bosnia) e cellule jihadiste nel centro dell’Europa, pronte a colpirci in ogni momento.
Quindi se le modalità dell’attentato di Gaziantep sembrano Isis (anche se poi il governo turco ha dovuto smentire che si trattasse di un bambino kamikaze) è molto probabile che alle sue spalle ci sia, in modo diretto o indiretto, Recep Tayyip Erdogan. Colpevolizzare l’Isis fa comodo a tutti, farlo con Erdogan disturba i russi, gli europei e soprattutto gli americani che a loro volta in Medio Oriente, non diversamente da tutti gli altri protagonisti di questo conflitto, fanno un doppio e triplo gioco. Sono contro Assad sostenuto dai russi ma sono anche alleati ai russi, non gli piace il governo di Erdogan ma sono costretti a tenerselo ben stretto perché è un alleato strategicamente troppo importante.
Bisogna malinconicamente concludere che in Medio Oriente e altrove c’è una sola forza che ha obiettivi chiari e non parla con lingua biforcuta: l’Isis.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano del 24 agosto 2016