Detesto gli animalisti, non gli animali che sarebbero anche delle brave bestie se non fosse per i loro padroni. Secondo quanto ha scritto sul Fatto (30.9) Silvia D’Onghia il Museo Guggenheim di New York è stato costretto a ritirare tre opere di artisti concettuali cinesi ritenute dagli animalisti una mancanza di rispetto e un’espressione di crudeltà nei confronti degli animali. La prima a scendere in campo è stata la presidente di People for the Ethical Treatment of Animals, Ingrid Newkirk. Sono seguite imponenti manifestazioni di animalisti davanti al Guggenheim, una raccolta di firme di protesta cui hanno aderito più di 700 mila persone e i soliti social con minacce più o meno larvate. Alla fine il Guggenheim è stato costretto a cedere per evitare guai peggiori (“siamo preoccupati per la sicurezza del personale, dei visitatori e degli stessi artisti”).
Se si seguisse questa linea delle ‘anime belle’ animaliste, e sempre che si ammetta che gli uomini hanno pari dignità e diritti degli animali, il Cristo della pala di Isenheim di Matthias Grunewald, esposto nello splendido chiostro di Unterlinden a Colmar, detto anche ‘il Cristo verde’ o ‘Cristo putrefatto’, dovrebbe essere scalpellato via a colpi di martello, magari insieme allo stesso chiostro che osa ospitarlo. Il Cristo di Grunewald si staglia su un cielo scurissimo, compatto come un muro di mattoni neri. La testa è caduta sul petto, la bocca spalancata in un grido gelato dalla morte, le labbra sono già molli, la pelle verde e marrone ha il colore e la rigidità delle lucertole stecchite, un rivo di sangue si è raggrumato sul costato. E’ l’immagine stessa della sofferenza dell’essere umano provocata da altri uomini. Dovrebbero essere debellati anche il Cristo morto del Mantegna disteso come su un tavolo da obitorio e tutti i San Sebastiano trafitti.
Negli Stati Uniti vivono 163 milioni tra cani e gatti che consumano una quantità di carne tale che potrebbe sfamare interi paesi dell’Africa subsahariana. E non si tratta di carne qualsiasi ma ad alto rendimento nutritivo come quella di cui ci dà notizia ogni giorno la pubblicità (Friskies and company). Un tempo, non poi tanto lontano, ai cani e ai gatti si davano i resti della tavola.
Negli ultimi cinquant’anni la produzione mondiale dei cereali di base, riso grano e mais, è aumentata rispettivamente del 30, 40 e 50 per cento e una crescita, sia pur modesta, della produzione di tali alimenti c’è stata anche nell’Africa subsahariana. Eppure gli africani, insieme a tanta altra gente del Terzo Mondo, muoiono di fame lo stesso e ne sono drammatica testimonianza le migrazioni che tanto ci spaventano. Il fatto è che in un’economia mondiale integrata, di mercato e monetaria, il cibo non va dove ce n’è bisogno, va dove c’è il denaro per acquistarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei paesi industrializzati se è vero che il 66 % della produzione mondiale dei cereali è destinato alla alimentazione degli animali dei paesi ricchi (dati FAO). I poveri del Terzo Mondo sono costretti a vendere alle bestie occidentali il cibo che potrebbe sfamarli.
In Occidente si è arrivati a produrre e commercializzare “shampoo e linee di beauty per cani”, gli si fa indossare, oltre ai cappottini, t-shirt, cappellini, trench, bretelle, stivaletti di montone, occhiali da sole, gli si smaltano le unghie, li si irrora di eau de toilette alla vaniglia, perché non odorino da cani, di “Color Highlight” per fare le mèche al pelo striandolo di rosa, di arancione, di blu, di fucsia, di oro, li si fa massaggiare, in centri specializzati, con gli oli essenziali e si fanno loro impacchi d’argilla, li si vaporizza con spray anti-stress, li si porta dallo psicanalista da 300 dollari a seduta, si stipulano polizze vita a loro favore del valore di 200 milioni di dollari o di euro.
Scrive Ernest Hemingway in Morte nel pomeriggio: “Io sono persuaso, per esperienza e osservazione, che coloro i quali si identificano con gli animali, vale a dire gli innamorati quasi professionisti di cani e altre bestie, sono capaci di una maggiore crudeltà verso gli esseri umani, di coloro che stentano a identificarsi con gli animali”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 3 ottobre 2017