L’attacco a Manhattan dell’uzbeco Sayfullo Saipov deve preoccupare, oltre che l’America, la Russia. Da tutta una serie di elementi raccolti in questi giorni, ma che non potevano essere ignoti né all’Intelligence americana né a quella russa, in Uzbekistan, paese musulmano dove l’88% della popolazione pratica la religione sunnita, ci sono forti agganci con la jihad. Proprio per questo il governo di Putin ha recentemente riconosciuto ufficialmente ai Talebani afghani lo status di “movimento politico e non terrorista” e li sta rifornendo di mitragliatori, lanciagranate e anche di armi più sofisticate, ma non dei micidiali missili terra-aria Stinger che porrebbero fine in poco tempo all’occupazione militare americana e Nato (chiamata ora, pudicamente e ipocritamente, Resolute Support Mission) così come avvenne quando erano i russi a occupare l’Afghanistan e gli americani si decisero a supportare i mujaheddin anche con gli Stinger. Qual è la strategia di Putin? L’Isis è penetrato profondamente in Afghanistan, tant’è che di recente ha compiuto una serie di attentati a Kabul e se sfonda il quel Paese dilaga non solo in Uzbekistan ma in Turkmenistan, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, tutti a maggioranza musulmana. Cioè la jihad si avvicina pericolosamente a Mosca. I Talebani afghani combattono contro l’Isis da quando si è affacciato in Afghanistan (la settimana scorsa ci sono stati sanguinosi scontri fra i Talebani e gli jihadisti nella provincia settentrionale afghana di Jawzjan, notizia puntualmente ignorata dalla stampa occidentale). I russi considerano quindi i Talebani oggettivamente degli alleati. Li armano, ma non in modo decisivo per poter continuare così a logorare gli occupanti occidentali che si ostinano a restar lì. Di segno diametralmente opposto è la strategia americana che invece di considerare, come fanno i russi, i Talebani afghani degli alleati, sia pur indiretti, continua a combatterli favorendo l’Isis. Perché gli americani si ostinano a restare in Afghanistan favorendo così l’Isis e indirettamente i russi? Per nessuna ragione ragionevole. Gli stessi osservatori occidentali, in primis quelli americani, ammettono che quella afghana “è una guerra che non si può vincere”. Che senso ha allora continuare a restare a logorarsi in quel Paese per decenni, avendolo tra l’altro distrutto invece di ricostruirlo, fino a quando verranno inesorabilmente cacciati come ci racconta tutta la storia degli afghani che buttarono fuori dal loro Paese gli inglesi nell’Ottocento e i russi nel 1989 dopo dieci anni di occupazione sovietica? Restano, insieme agli italiani complici, “per salvare la faccia”, la loro bella faccia, cosa di cui non si preoccuparono, tenendo conto di quella che era la realtà, né i sovietici né, andando indietro nel tempo e riferendosi a un’altra area geopolitica, Nixon quando decise di lasciare il Vietnam.
Conclusione: Putin è un vero uomo di Stato, che ragiona da uomo di Stato, la dirigenza statunitense, almeno da George W. Bush in poi, assomiglia molto di più a una congrega confusionaria e confusa di incapaci autolesionisti e pericolosi.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2017