La nostra è una società femminile senza essere femminea. In Gran Bretagna si è deciso di ammettere le donne nei corpi speciali, le Sas, ma nei test per entrare in questi reparti cui sono affidate le missioni più difficili e pericolose si sono dovuti alleggerire i carichi fisici oltre che il massacrante addestramento (ma in Italia i maschi non se la cavano molto meglio se per fare il soldato semplice i requisiti fisici hanno dovuto essere abbassati –del resto che si può pretendere da generazioni in cui, statistiche alla mano, un bambino su tre non è capace di saltare a piè pari una linea tracciata sul terreno, mentre ai tempi miei anche le bambine facevano naturalmente questo facile esercizio giocando a ‘pampano’).
Che le donne debbano avere pari diritti e pari opportunità degli uomini e che se c’è un vuoto nelle opportunità, come in effetti c’è, debba essere al più presto colmato, non è nemmeno il caso di dirlo. Nondimeno, per il disegno di un dio dispettoso, donne e uomini se son pari non sono però uguali, né fisicamente né psicologicamente. E io vedo in questa voglia delle donne, o di parte di esse, di partecipare attivamente alla guerra un’autentica perversione degli istinti e una mutazione antropologica che va verso un’omologazione deleteria.
La donna (a parte rare, rarissime eccezioni, le Amazzoni) non ha mai amato la guerra, anzi l’ha sempre detestata. Poiché è colei che dà la vita questa carneficina le è sempre, e giustamente, parsa insensata. Per il maschio la cosa è diversa. Inconsciamente sa, o comunque intuisce, di avere nella grande storia antropologica dell’esistenza umana una funzione transeunte, quella marginale del fuco inseminatore. L’Ape Regina è lei. In molte culture antiche, per esempio nella kabbala e peraltro anche in Platone, si pensava che l’Essere primigenio fosse unico, androgino, contenesse cioè in sé sia il maschile che il femminile. Quando si scinde lei è chiamata “la Vita” o “la Vivente”, l’uomo colui che “è escluso dall’Albero della Vita”. Nel maschio quindi, come nel fuco, c’è un oscuro istinto di morte. L’”invidia del pene” è una sciocchezza d’autore, freudiana. E’ vero il contrario, è il maschio a sentire come limite questa sua impotenza procreatrice. E io sono portato a credere che è proprio per supplire in qualche modo a questa impotenza che si è inventato di tutto, l’arte, la letteratura, il gioco e il gioco di tutti i giochi: la guerra. Inoltre, paradossalmente ma solo in apparenza, la guerra gli è utile per superare il timore della morte. Com’è noto le donne sono più allenate ad affrontare la morte. Perché per loro è, in fondo, un ricongiungersi a se stesse, a Gea, alla Grande Madre Terra. Per l’uomo invece la morte è un fatto radicale, assoluto, senza ritorno e quindi inaccettabile. Ed è proprio l’immergersi nella guerra –intendo la guerra tradizionale, non quella che si fa oggi a colpi di droni e di missili- che gli fa dimenticare la morte (scrive Malraux: “Ho pensato molto alla morte, ma da quando mi batto non ci penso più”) perché conferisce alla sua vita quel senso di cui la sua impotenza procreatrice lo ha privato. Infine la guerra gli serve per dimostrare il proprio coraggio. La donna non ne ha bisogno: il coraggio ce l’ha quando occorre, perché vi è antropologicamente preparata dal parto con le sue doglie. Può spaventarsi per delle sciocchezze, il passarle fra le gambe di un passerotto o, orrore, di un topo, ma al momento del dunque lei c’è, meglio dell’uomo. Come dimostra la storia di molte donne di uomini celebri, dalla sposa di Luigi XVI a Claretta Petacci.
Se il mondo occidentale non è più femmineo è perché la donna, sotto la spinta di un’ideologia autodistruttiva e necrofora, sta via via perdendo i suoi connotati ancestrali e archetipi di Madre, procreatrice, protettiva, accuditiva. E’ femminile perché tale è diventato il maschio. Se Angela Merkel è considerata, in Europa, l’unico uomo di Stato è perché gli altri non sono più uomini ma parodie.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2017