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La proposta del ministro del Lavoro Di Maio di chiudere i negozi la domenica s’inserisce in quello che è forse il progetto più ambizioso del programma a Cinque Stelle e che Grillo ha chiamato “il tempo liberato”: privilegiare il valore-tempo sul valore-lavoro. Progetto ambizioso perché va contro uno dei totem del nostro modello di sviluppo: la produttività. Non a caso questa proposta verrebbe inserita in quello che sempre i Cinque Stelle hanno chiamato “decreto dignità”. Noi non possiamo sacrificare tutto alla produttività, cioè all’equazione produzione-consumo, per cui il consumo, anche quello domenicale, fa da supporto alla produzione e viceversa. In fondo anche Dio “il settimo giorno si riposò”. Questo lo aveva capito un Papa, Wojtyla, che parecchi anni fa invitò a rispettare il riposo domenicale. Ma rimase inascoltato. Ora i Cinque Stelle riprendono quel progetto ma in chiave laica. Il riposo domenicale significa più tempo per la contemplazione, la riflessione e anche la famiglia. Se in Italia, e in tutto l’Occidente, si fanno così pochi figli è perché siamo stritolati fra il lavoro nei giorni feriali e il consumo compulsivo durante il weekend. Insomma non abbiamo mai un vero tempo per noi stessi.

Il progetto di Di Maio è avversato dalle associazioni dei consumatori, persone che non si vergognano di essersi fatte degradare da uomini a consumatori, cioè gente che deve ingurgitare, come un water, nel più breve tempo possibile ciò che altrettanto velocemente produce. Ed è avversato dalla Federdistribuzione spaventata dall’idea di perdere 12 milioni di italiani che fanno acquisti la domenica. Ma è stato capito, a quanto pare, dai sindacati: “non esiste un diritto allo shopping” ha dichiarato il segretario della Cisl Anna Maria Furlan. E non è un caso che la Cisl rappresenti i lavoratori di cultura cattolica. E questo è un grosso salto nella storia del sindacato. Ai primordi della Rivoluzione industriale il sindacato è stato decisivo nell’arginare il massacro che le imprese stavano compiendo sui lavoratori. Si facevano lavorare anche i bambini di 6 o 7 anni, si imponevano ritmi di lavoro tali che alla fine uccidevano il lavoratore. Poi la situazione è apparentemente migliorata perché gli stessi imprenditori hanno rinunciato a spremere oltre ogni limite il lavoratore sul luogo del lavoro ma solo in funzione del fatto che avesse più tempo per il consumo, cioè che ridiventasse schiavo sia pur in un’altra forma. Il sindacato però non si è accorto, o si è accorto troppo tardi, che oltre ai salari e ai ritmi del lavoro c’era la questione della qualità del lavoro e del mondo che lo circonda. In questa qualità c’è innanzitutto la salute (la vertenza Ilva è emblematica). Ma nella salute rientra anche la qualità di quello che noi chiamiamo il nostro “tempo libero”. Se noi lo passiamo a consumare siamo punto e a capo. Ecco quindi la ragione della fondamentale distinzione fra “tempo libero” e “tempo liberato”.

Quello che noi stentiamo a percepire qui è stato capito nella lontanissima Corea del Sud (non del Nord) dove ci si appresta a ridurre drasticamente gli orari di lavoro dei coreani spaventati dal fenomeno del karoshi (termine non a caso coniato dai giapponesi che, sulla base della loro cultura samurai, non sono secondi a nessuno nello stakanovismo) che indica la “morte per fatica”. Noi occidentali questo punto lo abbiamo superato già da tempo quando gli stessi imprenditori, a cavallo fra Ottocento e Novecento, si accorsero che i ritmi ossessivi uccidevano la manodopera che non era più sostituibile con la massa contadina che aveva dovuto lasciare le campagne in seguito all’introduzione dell’enclosures a sfavore del regime degli open fields su cui aveva vissuto per secoli. Questa massa, intruppandosi nelle città, si era alla fine esaurita. Si doveva salvare il lavoratore non per spirito di carità ma per spirito d’impresa. Più interessante per noi, arrivati a un certo livello del nostro modello di sviluppo, è una delle motivazioni che il presidente della Corea del Sud ha fornito per giustificare la nuova legge: “dare più tempo alle famiglie”. Inutile dire che le grandi Corporation stanno cercando di mettere i bastoni fra le ruote. I lavoratori devono sopravvivere sì ma solo a loro uso e, è il caso di dirlo, consumo.

Il concetto sudcoreano di “dare alle famiglie più tempo per sé” si lega anche al tentativo di stoppare il decremento demografico. Ma questo è un problema che riguarda tutto l’Occidente e l’Italia in particolare che nel mondo è in penultima posizione con una fertilità per donna di 1,3. Ecco perché il progetto a Cinque Stelle che a Dario Di Vico appare “ideologico” (Corriere, 21.6) si rivela in realtà anche molto pragmatico se non vogliamo essere sommersi dal mondo musulmano (indice di fertilità 2,5) e da quello africano (indice 5). Se non poniamo un freno alla frenesia della produttività e del consumo non ci saranno cannoni di Salvini, navi da guerra, espulsioni che potranno impedire la scomparsa della nostra civiltà. Fenomeno che si è già ripetuto molte volte nella ormai lunga storia del mondo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2018