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Nel 2003 il produttore e regista Eduardo Fiorillo mi propose di partecipare a un format che avrebbe chiamato Cyrano e che sarebbe dovuto andare in onda in terza serata su Rai Due diretta dal leghista Antonio Marano. Io non vi avevo nemmeno la parte del conduttore (per questo c’era la bella, brava e sperimentata Francesca Roveda) dovevo solo dare un filo coeso ai vari spezzoni dello spettacolo che trattavano di vecchiaia, di narcisismo, della morte cioè di argomenti politicamente neutri. Senza nemmeno aver visto la pilota che avevamo fatto negli studi Rai di corso Sempione a Milano e che peraltro non avevamo nemmeno montato, Fiorillo si sentì chiamare da Marano, che parlava da Roma: “Devi togliere di mezzo Massimo Fini. Tu naturalmente puoi fare la trasmissione”. Fiorillo si rifiutò. Ci fu un incontro con Marano il giorno precedente la trasmissione che era stata annunciata su tutti i giornali. Il Don Abbondio Marano a suo modo fu onesto. Disse: “A questo punto la puntata l’ho vista. Potrei dirle che lei non buca il video, che ci sono dei difetti e altre cose del genere. Ma non me la sento, perché non è così. E’ che su di lei c’è un veto politico aziendale da parte di persona cui non posso resistere”. La trasmissione andò in onda con altro nome (Borderline), senza di me. Non era quindi una censura sui contenuti, ma antropologica, sulla persona sulla cui spalla era stata appiccicata una stella gialla come per gli ebrei durante il nazismo. Per censure anche meno gravi sui media si è sempre scatenato il putiferio. Per me ci fu solo silenzio. Michele Santoro si degnò di dire che era una ben piccola cosa rispetto a quello che aveva dovuto subire lui. Peccato che dopo l’editto bulgaro di Berlusconi avesse trovato subito un posto come parlamentare europeo nella lista Uniti nell’Ulivo. Un giornalista indipendente, come si è sempre dichiarato a gran voce Santoro, non fa il parlamentare né europeo né italiano e nemmeno il consigliere comunale.

Nel giugno del 2004 partecipai con il mio gruppo, Movimento Zero, alle manifestazioni anti-Bush a Roma. Un parlamentare dei Comunisti italiani avvicinò uno dei pulotti affermando che noi non potevamo stare in piazza perché eravamo “fascisti”. Fui portato su un cellulare, identificato, fermato per un’ora. Se una cosa del genere fosse successa a qualsiasi altro giornalista italiano si sarebbero sollevati tutti i giornali e il sindacato per “il gravissimo attentato alla libertà di stampa”. Per me ci fu solo silenzio. Peggio. Il Corriere della Sera scrisse che inalberavamo uno striscione-shock “Noi con i Talebani”. Vero. Peccato che sottacesse l’altra parte dello striscione che diceva “per l’autodeterminazione dei popoli”. Faccio da troppi anni questo mestiere per non conoscere le manipolazioni di cui sono capaci i media. Non dicono menzogne, dicono mezze verità che sono peggio di una menzogna. In una questione che conosco bene, l’Afghanistan, questa operazione l’ho vista fare mille volte da tutti i giornali, nessuno escluso.

Il 29 giugno 1985 scrissi sulla Domenica del Corriere un pezzo molto critico su Sandro Pertini che, dopo il suo primo settennato, voleva ad ottantanove anni ricandidarsi alla Presidenza della Repubblica (“Il presidente ch’io vorrei”, 29/6/1985). Il Presidente “democratico”, quello “amato da tutti gli italiani”, “quello che si comporta come ognuno di noi”, chiese la testa mia e del direttore, Pierluigi Magnaschi, e le ottenne. A un Costanzo Show cercai di raccontare questa storia ma il conduttore mi bloccò. Più recentemente, in concomitanza di non mi ricordo quale celebrazione di Pertini, volevo riprendere sul Fatto quell’episodio che era solo emblematico delle prepotenze, ad esser lievi, di cui Pertini si era reso responsabile durante il suo settennato. Marco Travaglio mi bloccò: “Non si parla male dei morti”. Ora, per me, se delle persone hanno commesso delle mascalzonate quando erano vive, non è che diventino sante solo perché sono morte. A questo proposito c’è da notare una cosa curiosa. Tutte le volte che muore qualcuno in qualche circostanza drammatica è sempre “un padre affettuoso”, “un marito esemplare”, “una gran bella persona”. Lo sarà anche, ma allora mi chiedo come mai questo Paese sia pieno di furfanti.

Ho sempre rispettato la legge,  il che dovrebbe essere ovvio ma in Italia ovvio non è, visto il numero dei lestofanti che sono in libertà, e non mi riferisco ai mafiosi o ai camorristi che perlomeno sono criminali dichiarati, ma ai colletti bianchi in circolazione, dai Formigoni agli Scajola ai Verdini in una lista che sarebbe infinita. Ho sempre pagato le tasse, il che dovrebbe essere ovvio ma in Italia ovvio non è, visto l’enorme numero degli evasori fiscali e degli ancora più astuti “elusori”.

Non mi sono mai imbandato in partiti, lobbies, conventicole, camarille di sorta, anche se adesso mi tocca subire l’onta delle accuse di quella faccia di bronzo di Vittorio Feltri, che ha passato metà della sua vita professionale all’ombra di Berlusconi, per aver cominciato la mia carriera all’Avanti! .

Questa mancanza di protezione lobbistica ha finito per colpire anche mio figlio che in un concorso universitario decisivo per la sua carriera e la sua vita si è visto soffiare il posto dalla moglie del cattedratico.

E quelle che ho fin qui raccontato non sono che il florilegio delle infinite vessazioni che ho dovuto subire durante tutta la mia vita e che mi hanno portato, professionalmente, socialmente, economicamente, esistenzialmente, ai margini della società nella frustrante posizione del “bombarolo” di De André.

Per tutta la vita ho cercato di essere leale nei confronti del Paese in cui mi è toccato di nascere, non nascondendo mai le mie posizioni quando gli erano avverse. Ma adesso mi sono stufato di fare “il bravo ragazzo”. E questa è l’ultima dichiarazione leale che faccio. D’ora in poi, nemici o estimatori che siate, non potrete più fidarvi di me. E le forme della mia rivolta le sceglierò io.

Massimo Fini 

Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2018