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Venerdì ho partecipato al Congresso di Psichiatria Sociale organizzato a Mezzana, Mendrisio, Confederazione Elvetica. Ho sempre detestato la Svizzera dove dicevo “c’è una deplorevole mancanza di polvere”. Quando vi arrivavo dalla Germania la attraversavo a tutta velocità facendomi un punto d’onore di non fermarmi nemmeno per un caffè. All’epoca in cui andavo molto spesso a giocare a Campione, insieme a Diego, il mio ‘compagno di merende’, e all’alba guardavamo al di là del lago, le cui acque a quell’ora si increspano leggermente, le luci di Lugano, mai una volta che ci sia venuta la curiosità di farci una capatina. In seguito mi è capitato di essere fidanzato con una giovane donna italiana che lavorava alla RSI (Radio Svizzera Italiana) che viveva a Lugano. Dopo le cinque e mezza del pomeriggio Lugano è deserta, di una desolazione che ho visto solo a Welkom, nel Free State sudafricano, dove in uno splendido pomeriggio di sole vidi in tutta la cittadina solo un nero, seduto su una panchina, solitario e silenzioso come solo i neri sanno essere (“la dignità solitaria del negro” la chiama Malaparte). Cosa facciano gli svizzeri, o quantomeno i luganesi, dopo le cinque e mezza non l’ho mai capito. Quel che so è che si alzano prestissimo e vanno a correre nei boschi sulle colline sopra la città. Quel nitore e quel silenzio mi davano così fastidio che mi rifugiavo in un bar di slavi per cercarvi un po’ di vita.

Eppure Lugano –come tutta la Svizzera- è una città assai curiosa, provinciale (ha solo 60 mila abitanti) e nello stesso tempo internazionale. In libreria trovi libri in italiano, ma anche in inglese, in francese, in tedesco. In città, per ragioni fiscali ma non solo, hanno la residenza americani, inglesi, francesi, tedeschi. Le Televisioni sono quattro, italiana, francese, tedesca, romanza. All’epoca in cui la bazzicavo sugli schermi italiani, nei talk, furoreggiavano il canaio inconcludente degli Sgarbi, la ‘tv del dolore’ di Costanzo, insomma il solito immondezzaio. Un confronto impietoso con i contenuti e il rigore delle trasmissioni svizzere, dove il conduttore non fa il protagonista, non è un domatore, non se la dà da opinion maker, né viene preso per tale, si limita a dirigere il traffico come faceva il vecchio, caro Jader Jacobelli quando conduceva l’antica Tribuna Politica in un’Italia meno imbarbarita. Mi ricordo di aver partecipato nel 2003, quando era in corso la guerra all’Iraq, a una trasmissione della Tv ticinese dedicata all’argomento, in cui erano presenti un iracheno, un rappresentante del consolato Usa, un iraniano (a quelle della Radio non mi invitavano, per ‘conflitto di interessi’, perché ero fidanzato con una che vi lavorava). Intervenne Gad Lerner. Poi il conduttore mi diede la parola e Lerner, secondo il malcostume italico, mi interruppe quasi subito. Gli dissi: “Guarda Gad che qui non siamo in Italia, siamo in Svizzera” e Lerner si zittì.

Per questo Congresso di Psichiatria Sociale mi trovavo quindi nel ‘mendrisiotto’, il buco del culo del mondo. Organizzazione perfetta. Ma questa non è una novità in un Paese in cui quando mettono un senso unico ti avvisano una settimana prima e ti indicano anche i percorsi alternativi partendo da casa tua. Meno scontato il livello degli specialisti tutti di prim’ordine, svizzeri, italo-svizzeri, italiani: psichiatri, etnopsichiatri, psicologi, psicoanalisti. Ancor meno scontato lo spessore degli interventi. Tanto che ho chiesto al giovane e simpatico Presidente, Amos Miozzari, se mi avevano chiamato come relatore o come un soggetto da studiare. Si è messo a ridere: “Non volevamo un convegno solo per addetti ai lavori, infermieri compresi. Volevamo qualche osservatore da fuori, che potesse aiutarci a chiarirci le idee. Prima di lei interverrà un filosofo, Salvatore Natoli”.

Particolarmente interessante l’intervento dello psicologo Raffaele Mattei che si occupa degli adolescenti nei casi più disperati (alcol, droga). Segue la linea basagliana che non bisogna “istituzionalizzare il malato” e non rinchiuderlo in centri di assistenza che qui chiamano foyer. Ma a differenza di Basaglia i suoi interventi sono molto concreti. Non bisogna giudicare il malato ma responsabilizzarlo. Gli si assegna un monolocale, il cui affitto è pagato dallo Stato, ma deve essere il ragazzo a cercarselo. Così se si presenta a una sciura svizzera, tutto tatuato, con piercing, casco in testa, probabilmente verrà respinto. Il ragazzo deve scegliere se cambiare atteggiamento o ritornare a fare l’elastico fra i vari foyer. In tal modo ha collocato in questi appartamenti singoli 36 adolescenti.

L’etnopsichiatra Piero Coppo che ha vissuto per molti anni in Mali e altri Paesi dell’Africa Nera ha chiarito come tutte le nostre teorie psicoanalitiche non hanno nessun senso né tantomeno efficacia presso popoli che hanno un’altra storia, un’altra cultura, altre tradizioni, una diversissima mentalità. Ha confermato tra l’altro quello che io sostengo da tempo e cioè che la depressione non esiste negli strati bassi di quelle popolazioni nere, vale a dire la stragrande maggioranza delle persone che vivono in quei Paesi che noi consideriamo sottosviluppati e arretrati. E’ una malattia della civiltà. I medici neri, gli sciamani, distinguono in “follia fredda” e “follia bollente”. E considerano più pericolosa la prima. La “follia bollente” è come un incendio impetuoso che, bruciando tutto ciò che gli sta attorno, alla fine si acquieta e si spegne. La “follia fredda” è più insidiosa perché non ha manifestazioni clamorose, abita dentro di noi senza che ce ne accorgiamo. Nel mio discorso ho sostenuto che in Occidente siamo tutti, o quasi, ammalati di “follia fredda”. Perché è il nostro modello di sviluppo a essere ammalante: conquistato un obbiettivo bisogna inseguirne subito un altro poi un altro ancora, senza mai poter raggiungere uno stato di equilibrio, di armonia, di pace.

Che gli svizzeri, ticinesi compresi, che pur parlano la nostra stessa lingua e sono divisi da noi da confini tracciati col righello o da fiumiciattoli come il Tresa, non siano dei campioni di calore umano non è una leggenda. E’ l’altra faccia del loro rigore. Negli anni Novanta un giorno un italiano imbracciò il kalashnikov e fece fuori sei svizzeri ticinesi col sotterraneo giubilo della consistente comunità italiana che vive o lavora da quelle parti. In dieci anni non era riuscito a farsi un’amicizia fra i ticinesi doc. Al Congresso di Mendrisio ho trovato simpatia, cordialità e una cortesia vera non quella dei torinesi “falsi e cortesi”. Ma un po’ di ‘svizzerume’ gli è rimasta addosso. Io, come tutti i polemisti, sono timido e per farmi coraggio prima di un intervento pubblico ho bisogno di bere un bicchiere di vino. Ma lì non passava, i commessi schierati a difesa del lunch non ne volevano sapere. Il dottor Paolo Cicale ha fatto il diavolo a quattro per procurarsi una bottiglia di rosso. Mentre, un po’ stupito, lo guardavo armeggiare col cavatappi mi ha detto, strizzandomi l’occhio: “Sa, io vivo in Svizzera, sono svizzero, ma resto pur sempre un italiano”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2019