Nell'estate del 1989, a pochi mesi dal crollo del muro di Berlino, io mi stavo occupando del lento sfaldamento di un altro muro: l'apartheid. Nell'agosto dell'89 mi trovavo in Sud Africa per L'Europeo. Nel mese successivo il nuovo presidente sudafricano De Klerk, che sostituiva l'ultraconservatore Botha, avrebbe annunciato la sua intenzione di abolire la discriminazione razziale fra bianchi e neri, una decisione che era nell'aria da tempo. La parte più meschina e stupida dell’apartheid, la cosiddetta ‘petty apartheid’, era stata già abolita: l’Immorality Act che interdiva i rapporti sessuali tra persone di razze diverse e la proibizione a neri e bianchi di frequentare gli stessi locali e usare gli stessi mezzi pubblici. Resisteva invece l’apartheid più dura, la ‘job reservation’, che impediva ai neri di raggiungere posizioni apicali.
Ma nel 1989 anche l’abolizione della ‘petty apartheid’ era più virtuale che reale, tale era la diffidenza che si era accumulata nei decenni fra le due comunità. Inoltre c’era una differenza culturale. E’ difficile immaginare due comunità così agli antipodi: la determinazione, la chiusa cupezza, di stampo protestante, degli ‘afrikaner pedigree’, boeri olandesi preilluministi che sembravano usciti paro paro dai quadri di Bruegel e l’allegria, la bonomia e la tradizionale indolenza dei neri che, nel 1989, erano ancora quelli descritti da Karen Blixen ne La mia Africa.
A Johannesburg sono salito a Hillbrow, una collina sopra la città, e sono entrato in un discreto pub, il Belmont. Separate da un vestibolo c’erano due grandi sale: il Taffi’s Bar e il Blue Bar. Nessuna scritta “white only”. Ma i bianchi stavano tutti al Taffi’s e i neri tutti al Blue. Non si vedeva un solo nero su un autobus di bianchi né, tantomeno, un bianco su un autobus che portava i neri nelle loro township. L’ho fatto io prendendo il bus per Alexandra, uno dei ghetti, insieme a Soweto, più famosi. Conservo ancora, con un certo orgoglio, il biglietto della Putco. I passeggeri neri mi guardavano con una certa curiosità, ma senza alcuna ostilità. Un’ostilità che non ho mai incontrato né nelle township né nei loro locali. Come mi ha detto un leader del Cosatu, il sindacato dei lavoratori neri: <<noi non ce l’abbiamo con i bianchi presi individualmente, ma con un sistema>>.
C’è però una differenza tra i neri anziani e i giovani, soprattutto quelli che hanno studiato in Occidente. Mi trovavo una sera a cena a casa di amici, a Durban. C’era un giovane medico Bheki Mbhele che lavorava all’ospedale King Edward VIII. Mi trattava freddamente. Capisco che per lui doveva essere frustrante, dover rientrare dopo cena, con la sua bella Mercedes bianca e il suo PhD, a Clermont il ghetto nero di Durban. Ma è anche vero che i neri che hanno studiato in Occidente perdono tutte le buone qualità della loro razza, a cominciare dalla tradizionale affabilità e una certa fanciullaggine, per acquisire tutte le cattive dei bianchi, a partire dall’ideologismo.
L’apartheid in ritirata in superficie (sto parlando sempre del 1989) si prende la sua rivincita nelle miniere. Scendo nella Western Deep Levels, una delle più grandi miniere aurifere del Sud Africa. L’ascensore è una grande gabbia divisa a mezz’altezza da una grata. Nella parte superiore stanno i neri, sotto i bianchi. Se cade una pietra se la buscano i primi. A 2700 metri di profondità, dove si trova il reef, la vena aurifera, il caldo è insopportabile, l’umidità soffocante, non si respira. Anche il più piccolo movimento costa fatica. Il geologo fa portare i suoi strumenti dal bass boy, il capo dei lavoratori neri. Svoltiamo in una galleria ancora più angusta, un budello in leggera salita. C’è un passaggio in cui siamo costretti a strisciare pancia a terra fra la ghiaia scivolosa e la roccia che ci preme sulla schiena. Sono dieci, quindici metri da incubo. Finalmente passiamo al di là della strettoia. Alla luce delle torce che ondeggiano sugli elmetti quattro o cinque neri a torso nudo trapanano la roccia con i martelli pneumatici. E’ lo stope, l’ultima frontiera della miniera, il posto dove si estrae. Il rumore è infernale. I ‘machine boy’ lavorano accovacciati perché il cunicolo è alto meno di un metro. Devono stare in quella posizione quattro o cinque ore, finché hanno finito di fare i fori nei quali verranno messe le cariche di dinamite. Alla luce della torcia il geologo mi mostra il reef, la vena, la stretta striscia di trenta centimetri di roccia per cui tutta la miniera, con i suoi uffici, le sue baracche, i suoi pozzi, le sue gabbie, i suoi livelli, i suoi treni, le sue gallerie, è costruita. Trenta maledetti centimetri, da cui si estrarranno 5, 10 grammi d’oro a tonnellata. Il geologo mi spiega perché lo stope è così basso, non più di un metro: per non diminuire la resa. Più bassa è la galleria, più alta è la resa. Risaliamo in superficie. La commovente natura sudafricana mi viene incontro. Riesce difficile immaginare che proprio sotto i nostri piedi c’è l’inferno.
Nelson Mandela ha potuto compiere il miracolo di una transazione pacifica dal Sud Africa dell’apartheid a uno stato di diritto perché apparteneva alle due culture. Da una parte, avvocato, aveva introiettato i principi dell’illuminismo, ma dall’altra rimaneva un Principe Xosa e, nonostante i 27 anni di galera, non aveva perso la tradizionale moderatezza dei neri d’antan.
Adesso in Sud Africa c’è la democrazia. La leadership è nera e corrotta come in tutte le altre, o quasi, democrazie del mondo. Tutto è tornato alla normalità.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2019