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Mentre Matteo Salvini celebra in Umbria (un test che ha riguardato 700 mila italiani) il suo trionfo e il Pd ma soprattutto i Cinque Stelle si leccano le ferite che per questi ultimi sembrano preludere a una scomparsa dalla scena, sul Corriere della Sera di qualche giorno fa leggiamo un articolo di Sabino Cassese (“La decadenza (ignorata) e il vuoto di idee dei partiti”) grande giurista ed economista che non può essere incasellato in nessuna corrente politica, insomma un uomo indipendente, articolo da cui, fra le altre cose, esce un dato all’apparenza sorprendente: “All’inizio della storia repubblicana, in un’Italia con quasi 13 milioni di abitanti in meno, i partiti avevano otto volte più iscritti di oggi”. E se ne capisce il perché. Nel dopoguerra i partiti erano portatori di grandi ideali e di grandi valori: la Dc si poneva come baluardo del “mondo libero” e liberista senza dimenticare però, richiamandosi proprio ai valori cristiani su cui era nata, la funzione sociale che uno Stato deve avere, il Pci, legato idealmente ma anche materialmente all’esperienza sovietica, stava dall’altra parte della barricata lottando per un’uguaglianza sociale a prezzo del sacrificio dei diritti civili, il Psi cercava di coniugare uguaglianza sociale e diritti civili, i liberali erano schierati senza se e senza ma col liberismo di stampo anglosassone, il Partito radicale di Marco Pannella, essenzialmente libertario, difendeva a spada tratta la laicità dello Stato interessandosi meno, almeno allora, dell’economia, il Msi riconosceva al Fascismo di aver avuto in testa e praticato coerentemente un’idea di Stato e di Nazione anche se poi era stato travolto dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale a favore delle Democrazie occidentali. Insomma, come si può vedere, veicolavano idee molto forti per cui aveva senso battersi.

Secondo Cassese i partiti “sono nati con un piede nella società, l’altro nello Stato. Hanno conservato il secondo e perduto il primo, con una grave crisi di legittimazione”. I partiti tradizionali, o almeno i più importanti, erano ben radicati nella realtà sociale, sul “territorio” come si dice oggi, il Pci e il Psi avevano sezioni ovunque anche nel borgo più sperduto, la Dc contava sulla diffusione capillare delle parrocchie. Inoltre facevano cultura, soprattutto cultura politica anche se settaria. A Milano, per stare alla città che conosco meglio, c’erano la Casa della cultura, comunista, il Circolo Formentini, socialista, mentre la sera in piazza Duomo si radunavano centinaia di persone che discutevano appassionatamente (oltre che di calcio, allora il grande sport nazionalpopolare, unificante) di politica in relazione ai partiti a cui si riferivano. Nel corso del tempo i partiti hanno perso il contatto con i cittadini ma hanno occupato sempre più lo Stato trasformandosi in autentiche mafie che si spartiscono il potere assoggettandovi i cittadini. Tutti noi sappiamo, per esperienza diretta, che in Italia non si fa carriera, in qualsiasi settore, se non si lecca la babbuccia di un qualche boss di partito, il merito, se c’è, viene dopo. I partiti pur occupando l’intero Stato, e proprio perché lo occupano, si sono talmente screditati davanti all’opinione pubblica che, come nota sempre Cassese, “solo 5 dei 49 partiti iscritti nella prima parte del ‘registro nazionale dei partiti politici’ hanno la parola ‘partito’ nella loro denominazione ufficiale e solo uno di quelli rappresentati in Parlamento la conserva”. Insomma gli stessi partiti si vergognano di se stessi.

Ma il fenomeno non è solo italiano è internazionale. Tutte le rivolte attualmente in atto nel mondo dai gilet jaune francesi, all’indipendentismo catalano, al Cile, all’Ecuador, al Libano, all’Iraq nascono in modo spontaneo, contro i partiti, la loro politica, la loro corruzione,  la classe dirigente. E se qualche partito cerca di mettere il proprio cappello sopra queste rivolte, per lucrarne arbitrariamente il consenso, viene respinto brutalmente.

E non credo proprio che il modesto test umbro possa essere interpretato come un’inversione di tendenza, come una rinnovata fiducia nei partiti. Anzi la conferma, perché sappiamo bene che nelle elezioni amministrative, ancor più che in quelle politiche, contano le camarille, le lobby locali, legate da interessi particolari, clientelari, quando non apertamente corruttivi (e questo vale, naturalmente, anche se in Umbria invece che la Lega avessero vinto il Pd o i Cinque Stelle). Altrimenti, facendo un esempio fra i tantissimi, non si capirebbe perché mai Claudio Scajola condannato per un reato infamante, prescritto per altri, uscito per il rotto della cuffia da un fatto moralmente ripugnante, l’essersi fatto pagare una lussuosa abitazione con vista Colosseo, che dovrebbe suscitare il disgusto, il disprezzo e l’incazzatura dei suoi concittadini, sia stato bellamente rieletto, nel 2018, sindaco di Imperia.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2019