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Caro Direttore, 

Massimo Fini che dichiara di essere cieco, in realtà quando si tratta di colpire i morti aguzza la vista e vede anche quello che non c'è mai stato. Evidentemente egli odia i trapassati non perché sia cattivo, assolutamente no, ma li strapazza e li insulta  perché sa che hanno difficoltà a smentirlo o replicare. 

Sul Fatto Quotidiano di giovedì 11 giugno Fini ha scritto una articolessa sulla famiglia Rizzoli, dal titolo "P2, corna e Tolstoy, la saga del Corriere", in cui si è divertito a dare addosso soprattutto a mio marito Angelo, prendendolo in giro con commenti insultanti ed offensivi, pur dicendosi suo amico, profittando del fatto che non c'è più da oltre sei anni, ucciso dall'eccesso di giustizia applicata su di lui. Fini non è mai stato amico di Angelo Rizzoli, in venticinque anni di matrimonio non l' ho mai visto in casa nostra e non ho mai sentito mio marito nominarlo come giornalista o commensale,  segno che non lo riteneva degno di nota. 

Nonostante ciò Fini lo ha descritto in maniera insolente e vile azzardando addirittura una analisi psicologica come fosse stato per anni il suo terapeuta, affibbiandogli ignobili soprannomi in modo indegno, proprio a mio marito che era un gentiluomo coltissimo e rispettoso persino di gente squallida. Avrei preferito che Fini scrivesse di Angelo quando lui era in vita, cosa che non ha mai fatto evidentemente temendo smentite sanguinose e fulminanti che non gli sarebbero state di sicuro risparmiate. Già precedentemente Massimo Fini, sempre sul vostro quotidiano, mentre Angelo era stato appena deposto nella bara, scrisse contro di lui in una prova analoga di codardia, che continua anche ora in modo sgangherato, insistendo come allora con falsità ed inesattezze incluse nel pezzo, infangando un uomo che non gli ha mai fatto nulla di male e che merita solo rispetto. Io ho avuto due figli da Angelo che si chiamano Rizzoli, che adoravano il loro padre e vivono del suo ricordo, e non permetto a nessuno di offendere in maniera così miserabile la sua memoria, nemmeno da un vostro giornalista mai decollato. 

Melania Rizzoli 

 

Capisco il dolore di una donna che ha perso il marito pochi anni fa, capisco molto meno, anzi non capisco affatto, il livore della signora Rizzoli nei miei confronti rovesciandomi addosso una serie di insulti gratuiti, sia sul piano personale che professionale.

Nel novembre del 1983 feci per l’Europeo una lunga intervista ad Angelo Rizzoli, che il direttore Claudio Rinaldi suddivise in tre puntate, che all’epoca aveva già subìto due arresti. In quell’intervista Angelo conferma punto per punto tutto ciò che ho scritto l’altro giorno sul Fatto. Quindi smentendo me la signora Rizzoli smentisce, senza rendersene conto, suo marito. Angelo mi fu grato per quell’intervista che avveniva in un momento in cui tutti lo trattavano da appestato perché, diversamente dalla maggioranza degli italiani, è mio costume, signora Rizzoli, correre in soccorso degli sconfitti e non dei vincitori.

Quando a Milano ci fu la seconda tranche dei funerali di Angelo (la prima si era svolta a Roma) mi ci recai. Notai che ero il solo giornalista presente insieme a Paolo Liguori. C’ero andato per onorare la memoria di un ragazzo che era stato mio compagno di scuola, di un uomo che era stato per sette anni il mio editore, di una famiglia che era stata molto importante per Milano e non solo. La signora Rizzoli sembrò contenta di vedermi, fu lei a venirmi incontro e scambiammo qualche parola. Così fu con Alberto (“so che sei stato molto vicino ad Angelo in questi ultimi tempi”, “be' non si è fratelli per nulla”) e con Andrea. Il quale il giorno dopo mi telefonò ringraziandomi per il pezzo che avevo scritto sul Fatto e ci ripromettemmo di rivederci. Poiché ognuno pensa che gli altri ragionino con la sua testa (se non fosse offensivo oserei dire “omnia sozza sozzis”), la signora Rizzoli si fece l’idea che fossi andato a quel funerale per carpire chissà quali segreti sulla famiglia Rizzoli di cui, non foss’altro che per ragioni anagrafiche, sapevo forse più di lei. Abbastanza di recente a una cena con più tavoli la signora Rizzoli venne a salutarmi al mio. Poiché lì per lì non l’avevo riconosciuta a causa dei miei problemi, chiamiamoli così, di vista, cui la signora accenna con grande signorilità, andai al suo tavolo per scusarmi e lei mi disse che uno dei suoi figli, che stava negli Stati Uniti, si occupava di oculistica e avrebbe potuto essermi d’aiuto. Comunque è vero, io ci vedevo benissimo anche quando ci vedevo benissimo. Come documentano i miei articoli sul Giorno vidi lo sfascio della Rizzoli prima dello stesso Angelo, vidi il ruolo che aveva Tassan Din e, in un altro campo, per fare uno dei tantissimi esempi, in una lettera aperta a Claudio Martelli, allora vicesegretario del Psi, dello stesso1983, previdi che il Partito socialista, se continuava a comportarsi come si stava comportando, sarebbe finito nel fango. Cosa che avvenne dieci anni dopo.

Non ho mai detto né tantomeno scritto di essere amico di Angelo Rizzoli. Non è colpa mia se abbiamo fatto lo stesso liceo, se siamo della stessa mandata, lui del 16 novembre 1943 io del 19 novembre, se siamo nati entrambi sulle colline del lago di Como e per gli stessi motivi, perché allora le famiglie, mariti esclusi, sfollavano per sfuggire ai bombardamenti dei liberatori angloamericani. Ho visto quindi il bullismo psicologico che i miei compagni di liceo, non certo io, esercitavano sul giovane Angelo e che lo stesso Angelo ammette in quell’intervista. Non è affatto vero, come sostiene la signora Rizzoli, che io mi accanisco su Angelo Rizzoli una volta che è morto. E’ vero proprio il contrario, lo definisco “il più innocente dei colpevoli” nel crac Rizzoli-Corriere, affermo, a dispetto di tutte le maligne gazzette, che quella con Eleonora Giorgi fu una storia d’amore. Insomma lo tratto con quella affettuosa simpatia che ho sempre avuto per i grandi quando cadono in disgrazia. Claudio Martelli, che credo la signora Rizzoli conosca bene, mi può essere testimone.

La signora Rizzoli scrive che non sono “mai decollato”. Bisogna capirsi sul termine. Se s’intende che i personaggi potenti, potentissimi, che ho attaccato, quando erano vivi, vivissimi, non sono riusciti, nonostante tutto, a torcermi il collo, ciò è vero. Se è un giudizio sulla mia carriera è perfettamente legittimo. Però io sono un Premio Montanelli alla carriera e alla scrittura (e nella giuria c’erano Paolo Mieli e Ferruccio De Bortoli), lo stesso Montanelli ha fatto al mio libro Il Conformista una prefazione così lusinghiera che mi porto come fiore all’occhiello. Inoltre secondo la nipote, Letizia Moizzi, Indro mi considerava il suo erede tanto che avrebbe voluto che, dopo la sua morte, la rubrica di lettere che teneva sul Corriere fosse affidata a me. E in campo giornalistico, se la signora Melania Rizzoli me lo consente, pardon me lo permette, preferisco credere più a Montanelli che a lei. Amen.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2020