“La lotta alla casta e alla corruzione, il superamento di vecchi modelli della destra della sinistra, andare oltre al dualismo vuoto, far leva sul sentimento comune, evocare la forza di un popolo stanco e sottomesso alle logiche dei piani alti di un potere ormai corrotto e distante dalle necessità, la crisi economica nel serbatoio della lotta per far trionfare ‘cittadini comuni’ contro élite ed establishment”. Così scrive il Giornale del 18 giugno riassumendo gli obbiettivi del socialismo bolivariano attualmente all’onor del mondo in Venezuela e i tentativi, sia pur molto timidi, di esportarlo in Grecia ad opera di Alexis Tsipras. Uno legge e dice: bene allora quelli del Giornale non sono così ottusi e trinariciuti da non riconoscere che, almeno nelle intenzioni, c’è del buono nel socialismo, bolivariano e non. Eh no. Tsipras, in un suo discorso, aveva detto: “E’ arrivato il momento di fare un grande passo verso il socialismo del XXI secolo, la storia ci chiama”. E come conclude l’autrice dell’articolo, Manila Alfano? Così: “Per fortuna poi la storia ha girato pagina”. Cioè a quelli del Giornale non gli sta bene la lotta alla casta e alla corruzione e si capisce poiché il loro patron è il principe dei corruttori. Gli va invece benissimo che la casta resti tale, che i ricchi diventino sempre più ricchi e anche un tantino più numerosi e i poveri sempre più poveri e molto più numerosi, un problema, anzi un dramma che è in atto da almeno quarant’anni, come segnalai sul Giorno nei primi anni Ottanta, e che esaurisce a poco a poco il ceto medio collante da sempre necessario perché non sia così oscenamente evidente il divario fra le classi agiate e quelle disperate, offrendo anche un po’di mobilità sociale, come, al contrario, gli sta malissimo che “un popolo stanco e sottomesso alle logiche dei piani alti” tenti di liberarsi da un potere che lo domina e lo schiaccia. Il fatto è che quelli del Giornale e di una destra che si fa fatica a definire destra, perché la Destra è stata una cosa seria, sono dei razzisti e della peggior specie: dei razzisti sociali.
Il Giornale per la penna di Paolo Manzo attacca anche Paolo Mieli, uno dei più autorevoli ma anche più cauti editorialisti del Corriere della Sera, colpevole, a suo dire, di rifiutarsi di definire “dittatura” il regime di Maduro e di sposare la tesi che dietro i ripetuti tentativi di spodestare l’erede di Chavez ci sia una “manina americana”. Ma come, non è stato proprio Gian Micalessin, inviato di lungo corso del Giornale, ad avanzare per primo questa tesi (“Il sospetto della manina Usa dietro il documento di ‘Abc’”, Il Giornale, 16.6)? Il Giornale nella sua sbornia iconoclasta non sotterra solo Maduro ma anche uno dei suoi migliori inviati.
Infine una nota a margine. La polemica è il sale del dibattito politico ma anche intellettuale (anch’io la sto facendo qui adversus Sallusti) e in definitiva della democrazia. In un passato recente e lontano abbiamo avuto polemiche clamorose e anche divertenti, fra Giovanni Papini, che si era inventato anche una rubrica Stroncature, da me ripresa molti anni dopo su Pagina, contro il critico letterario e storico dell’arte Emilio Cecchi, fra Giovanni Brera ed Ennio Flaiano. La violenza invece non fa parte né del dibattito politico o intellettuale né della democrazia. E segnalare una persona, con corredo di foto irridenti, al pubblico ludibrio è violenza che, fatte naturalmente tutte le debite proporzioni, ricorda quella delle squadracce fasciste contro gli avversari. Il giornalismo italiano, per quanto nient’affatto immacolato, non era mai sceso così in basso.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2020