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“La giovinezza finisce quando non si può più mettere piede su un campo di calcio senza temere l’infarto. La vecchiaia inizia quando l’estate invece che una promessa di felicità diventa una preoccupazione” (Il Ribelle dalla A alla Z).

Sono quarant’anni che non metto più piede su un campo di calcio (da undici, quello a sei è un altro gioco). Ma non perché a 36 anni, quanti ne avevo quando giocai l’ultima partita, potessi temere l’infarto ma per altri motivi, pur sempre legati all’età e al progressivo progredire, all’inizio lento e quasi impercettibile, del cammino verso la vecchiaia. Mi arrivò un cross dalla destra, al bacio. Bastava tuffarsi coi tempi giusti, colpire il pallone e, poiché ero vicinissimo alla porta, sarebbe stato gol o un “quasi gol” come avrebbe detto Nicolò Carosio. Mancai il pallone. I tempi erano stati giusti, i riflessi anche. I riflessi, insieme alla voce, sono quelli che resistono più a lungo. Ed è per questo che abbiamo avuto e abbiamo portieri (in porta il riflesso, insieme al senso della posizione, è tutto) che giocano fino a quarant’anni, Zoff, Buffon. Quella che mi era venuta meno era la forza nelle gambe per spiccare il tuffo. Quante volte ho visto il mio penultimo idolo Ruud van Nistelrooij (l’ultimo è stato Iniesta che adesso fa “l’illusionista” in Cina) a fine carriera, all’Amburgo o al Malaga, colpire con la precisione e la mira di sempre, tiro raso palo o traversa, ma sul pallone, a differenza di un tempo, il portiere, com’è come non è, riusciva ad arrivarci. Gli era venuta meno la potenza. Negli atleti questi sintomi di invecchiamento si avvertono molto presto, quando in realtà sono poco più che dei ragazzi, negli uomini normali arrivano molto più tardi ma prima o poi arrivano.

L’estate è una sorta di amplificatore di tutti i problemi, spesso dei drammi, della vecchiaia, così come la globalizzazione è un moltiplicatore esponenziale dei guasti del turbocapitalismo. Cominciamo dal caldo. Il caldo estivo è più pericoloso del Covid per gli anziani. Nel 2003 un’ondata di calore uccise solo in Francia 20 mila persone, non certo dei ragazzi. Gli anziani non soffrono il caldo, almeno così si dice (io, mezzo russo, continuo a soffrirlo come sempre) ma muoiono di caldo e se non è proprio il caldo a ucciderli c’è il terrorismo meteorologico che si è inventato la “temperatura percepita”, così uno muore di spavento. Noi vecchi dobbiamo quindi difenderci (da ragazzi quando mai ci è fregato qualcosa del caldo?). I più saggi fra noi d’estate si spostano in collina o poco oltre i mille metri (più in alto no, ci sono problemi di pressione) è più riposante dicono. Ma è un riposo che somiglia un po’ troppo all’eterno riposo. Io poi, come quasi tutti gli anziani, detesto la compagnia dei miei coetanei, parlano solo di medicine, di medici, di malattie e attualmente nemmeno del campionato di calcio che di fatto, a porte chiuse, non c’è. Ciò che è certo è che un anziano non può rimanere in una grande città come Milano (a Roma, baciata in fronte come sempre dagli Dei, è già diverso) perché resta solo. E la solitudine, come è stato accertato, uccide più del fumo. Dice: ma c’è la famiglia. La famiglia allargata di un tempo non esiste più, i figli, se ne hai (in genere uno solo), lavorano all’estero o comunque d’estate se la squagliano altrove lasciandoti come tutta compagnia un Tamagotchi. Ma avrai pure una moglie o una compagna. Per la mia generazione, che è quella dei divorzi e delle separazioni, non è esattamente così. Triste è il destino dell’uomo che ha avuto una vita intensa, relazioni, alcune anche profonde e relativamente durature, con varie donne, ma che in età matura, per inquietudine, incapacità, sfortuna, presunzione, orgoglio, voglia di perfezione, non è riuscito a trovare un ubi consistam definitivo con una di esse. Finisce come il Jack Nicholson di Conoscenza carnale  a trascinarsi il sabato sera da quella certa prostituta perché lo chiama “uccello d’oro”. A certe età estreme non vale nemmeno la fama: Mario Monicelli, 95 anni, e Carlo Lizzani, 91, sono morti di solitudine, gli amici, saggiamente, se l’erano filata prima.

L’estate costringe poi, inevitabilmente, all’esposizione dei corpi. Torna presto pietoso inverno a nasconderci nel tuo ovattato anonimato. Torna presto pietoso inverno a difenderci con i tuoi saggi vestiti dall’esibizione delle nostre membra inflaccidite, di noi che pur, un tempo, fummo levigati e duri. Torna presto amico inverno, tu che ci eviti impietosi confronti e gesti atletici in cui pur un tempo eccellemmo, e magari, in qualche caso, fummo i primi, ma che adesso rivelano solo la nostra ansiosa goffaggine. Torna presto pietoso inverno perché nel tuo ventre buio e alla tua incerta luce si possa nascondere ancora una volta, agli altri, ma soprattutto a noi stessi, che siamo venuti vecchi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2020