0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Escono dalle tane. D’estate, al mare, i vecchi. E’ una processione ininterrotta di persone ingobbite dal peso dell’età, di malformati, di motulesi, di carrozzine, di bastoni, di audiolesi con protesi che non riescono a nascondere l’infermità, di non vedenti, cechi per dirla in italiano, che stretti fra di loro avanzano insieme come nel famoso quadro di Bruegel. Ma la condizione più penosa è delle donne over. In bikini come se trent’anni fossero passati impunemente, sempre a cospargersi di creme, per ripararsi dal sole, dicono, ma in realtà per tentare di recuperare una bellezza che nessun artificio può più restituire.

Negli anni Settanta cominciò il refrain “vecchio è bello”. Non era un modo pietoso di piegarsi sui vecchi, di cercare di lenire con un’illusione ottica la loro condizione, era il marketing che aveva scoperto che la popolazione stava diventando sempre più anziana e numerosa, i vecchi diventavano quindi un mercato appetibile per quanto consumatori debolissimi e allora li si spingeva a consumare di più, convincendoli a sgambettare impudicamente nelle balere, a scopare, con Viagra, anche se non ne avevano più alcuna voglia, a imbellettarsi e vestirsi da giovani (E’ quanto era successo, in modo simmetrico, pochi anni prima con i giovani dopo il boom economico, adesso i ragazzi avevano qualche soldo in tasca, bisognava pur spillarglielo. E nacque il giovanilismo, per i cui i giovani, qualsiasi cosa facessero, avevano sempre ragione).

Tuttavia il peso maggiore per il vecchio, d’estate come d’inverno, non è l’assistere impotente alla inevitabile e inarrestabile decadenza fisica, a meno che l’Alzheimer o l’arteriosclerosi non lo metta al riparo, ma il senso di spaesamento di estraneità al tempo presente tanto più acuto in un mondo che ruota a velocità supersonica. Il paesaggio cambia in continuazione, i luoghi pure, gli oggetti sono diversi, altri i miti, gli idoli, gli attori, le letture di riferimento. Tutto appare remoto, lontano, lontano. Tutto è mutato. Siamo dei sopravvissuti. Solo i tuoi coetanei, sempre più simili a te, ti sono familiari e riconoscibili, ma eviti di guardarli per non specchiarti in loro. In questo appiattimento e sfocamento collettivo resta soltanto, a distinguerci, la singolarità della propria morte.

“Caro agli Dei è chi muore giovane” scrive Menandro. Ma forse ad essere baciati in fronte dagli Dei sono solo coloro che non sono mai nati. Perché una volta che ci sei dentro, nella vita, non hai più scampo, non puoi più evitare il torturante confronto col Tempo. Sei entrato nel Tempo e non ne puoi più uscire. Se non con la morte. Ed è vero che la morte ce la si può dare anche di propria mano quando le condizioni ci sembrano diventate intollerabili. Ma si rimanda, si rimanda, si rimanda, si trova  sempre una buona scusa cui aggrapparsi. Perché l’estremo, e doloroso, paradosso dei vecchi è che desiderano morire ma vogliono vivere.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 28 luglio 2020