"La Ragione aveva torto?" aveva ragione
Il saggio di Massimo Fini, pubblicato per la prima volta nel 1985, sembra avere stretto un patto con il diavolo, conserva ancora intatte tutte le principali caratteristiche che aveva allora.
La Ragione aveva torto ha avuto ragione. Anche se a distanza di trentacinque anni ancora in molti non riescono a digerirlo. E proprio per questo il saggio di Massimo Fini, pubblicato per la prima volta nel 1985, sembra avere stretto un patto con il diavolo, conserva ancora intatte tutte le principali caratteristiche che aveva allora: spiazzante, inaudito, a tratti intellettualmente pornografico.
Una bestemmia in chiesa. Ma soprattutto un libro scomodo, nel senso proprio della scomodità. Lì per lì non faceva comodo all'autore pubblicarlo (allora nessun voleva darlo alle stampe, col passare degli anni è poi diventato un longseller rieditato innumerevoli volte) e tantomeno al lettore leggerlo. Troppo destabilizzante. Nella rutilante Milano da bere degli anni Ottanta, con il sole in fronte e il contante in tasca, chi voleva sentirsi dire che non vivevamo nel migliore dei mondi possibili e che non dovevamo genufletterci quotidianamente ai progressivi e prodigiosi benefici della rivoluzione industriale e dell'illuminismo?
Massimo Fini - giornalista, scrittore, polemista e pure attore teatrale - invece si mette alla macchina per scrivere e la utilizza come un bulldozer: distruggendo tutti i capisaldi della tanto tranquillizzante autobiografia della società occidentale. Si stava meglio quando si stava peggio? Fini in una certa misura lo dimostra, con una logica serrata e con prove documentali. Partiamo da due luoghi comuni. Si moriva di fame nell'ancien régime? No, se non durante le carestie. Non c'erano banchetti luculliani, ovviamente, e la ricerca del cibo era una preoccupazione ma non un'ossessione. La vita era più breve rispetto a quella di oggi? «Era senza dubbio più breve - scrive l'autore -, ma non poi così tanto, diciamo, grosso modo una decina di anni di meno; sufficientemente lunga perché questi nostri antenati potessero fare le cose essenziali: sposarsi, avere figli, allevarli, invecchiare decorosamente».
Sgomberato il campo da questi due pregiudizi, Fini inizia a prendere a cazzotti la modernità. Dall'aumento esponenziale dei suicidi, delle malattie psichiatriche, dell'abuso di alcol e sostanze stupefacenti che il progresso ha portato con sé, al tabù della morte. Parola vietata, aggirata con mille sinonimi e trapezismi lessicali. Perché, spiega Fini, la morte nella società moderna non è tollerata né contemplata. Come se fosse un inspiegabile errore di sistema impossibile da metabolizzare. E poi la vecchiaia, l'analfabetismo, l'uguaglianza, il valore del tempo e della società. L'autore passa al vaglio tutti i pregiudizi che aleggiano su quello che ha preceduto la Rivoluzione francese. Si tratta di un libro assolutamente antimoderno, che però aiuta il lettore a fare luce sulla quotidianità: riscrivere quello che è successo ieri per potere leggere quello che succederà domani. Non sfuggono alla penna di Fini neppure due dei pilastri del nostro tempo: la rappresentanza e il sistema democratico. «Se il contadino aveva il relativo controllo del territorio su cui viveva, noi oggi non siamo nemmeno in grado di decidere se nella nostra via va messo o no un lampione(...). Nella pratica la nostra partecipazione al governo della cosa pubblica e il nostro controllo sono poco più che un simulacro», scriveva profeticamente nel 1985. E poi ancora, sul filo dell'attualità: «Le decisioni più importanti che incidono profondamente sulla nostra vita quotidiana, sono oggi extranazionali e vengono prese in luoghi e sedi totalmente al di fuori del nostro controllo». E qui in un colpo solo, in controluce, vengono anticipate alcune delle tematiche sviluppate, decenni dopo, dal mondo no global ma anche dalle galassie populiste e sovraniste: la forza massificante della globalizzazione, la mancanza di sovranità degli Stati, il potere delle strutture sovranazionali. Quella di Fini è un'analisi lucida e al contempo amara: «L'illuminismo nasce da un impulso orgoglioso e generoso contro un conformismo durato migliaia d'anni - scrive l'autore -. Ma, per un doloroso contrappasso, quel conformismo, quell'immobilismo, quella paralisi, le cui singole manifestazioni erano, o apparivano, irrazionali, nascondevano un nucleo di sapienza inestimabile, la sapienza della specie, che noi abbiamo distrutto e ormai perduto per sempre. Oggi, che sono passati più di due secoli da quando la rivoluzione illuminista si è messa in marcia, dobbiamo constatare, con incredulità e con orrore, che la Ragione aveva Torto».
La Ragione aveva torto non è l'esercizio retorico di un bastiancontrario (e Fini, senza dubbio, lo è) per épater le bourgeois. Ma è, piuttosto, un grido di allarme e di dolore. Letto con gli occhi di oggi è - al di là del suo contenuto specifico - un monito costante a non sprofondare nelle sabbie mobili dei luoghi comuni e financo a non blindare il proprio pensiero nei confini del politicamente corretto. Il volume ne è la dimostrazione pratica: nato quasi in clandestinità, nel corso degli anni è diventato un longseller di culto, considerato come un vero e proprio libro formativo da frotte di lettori. Da questo volume sono nati, come per gemmazione, tutti gli altri libri del giornalista-filosofo: dall'Elogio della guerra a Il conformista, da Il denaro, sterco del demonio a Il vizio oscuro dell'Occidente.
La Ragione aveva torto, 35 anni dopo è un messaggio in bottiglia che continua a navigare tra i marosi della modernità, sempre controcorrente.
Francesco Maria Del Vigo, Il Giornale, 3 agosto 2020
Ringrazio i 'nemici' del Giornale che con questo articolo mi rendono, di fatto, un 'classico'. A mia memoria non si celebrano anniversari di pubblicazioni di un autore vivente (e, al momento, io lo sono, Covid permettendo). Poiché io sono un antiberlusconiano della prima ora, anzi prima della prima ora, una bella prova di onestà intellettuale da parte dei colleghi del Giornale.
m.f.