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Domenica sera si è disputata fra Bayern Monaco e Paris St Germain la finale di Champions League, che ha sostituito la vecchia, cara e più onesta Coppa dei Campioni. Nella vecchia Coppa le vincitrici dei rispettivi campionati europei si affrontavano  fin dall’inizio con la tradizionale formula secca: andata e ritorno, chi prevaleva passava al turno successivo. Poiché il calcio è imprevedibile, ed è questo il suo bello, poteva capitare che una squadra minore battesse una grande squadra. Così successe, se non ricordo male, col Lugano contro l’Inter, una grande Inter molto diversa da quella di adesso piena di brocchi, a cominciare da quell’equivoco che è Lukaku. Con la formula attuale, a gironi, con quattro squadre e quindi sei partite da giocare, è ovvio che si evitano le sorprese e passano le squadre più titolate. Inoltre quasi sempre le ultime partite, a passaggio turno ormai ottenuto, sono inutili. La trasformazione della vecchia Coppa dei Campioni in Champions è dovuta, come sempre, a motivi economici: con più partite da giocare molti più quattrini, elementare Watson.

Nelle quote dei bookmakers il Bayern era dato nettamente favorito, 1,55, ma sulla carta non c’era poi così grande differenza col Paris, come poi si sarebbe visto sul campo. I tedeschi non hanno vinto tanto per una miglior organizzazione di gioco, che pur c’è stata, ma per una questione di mentalità. E' vero che nella formazione titolare del Bayern i tedeschi propriamente detti non sono molti (Neuer, tornato a essere, con Ter Stegen, il miglior portiere del mondo, il dubbio  Boateng, il modesto ma prezioso Sule, l’esterno Kimmich, molto cresciuto negli ultimi anni, Goretzka, Gnabry  e l’eterno Muller sopravvissuto ai Ribery e ai Robben) ma chi gioca col Bayern vive a Monaco di Baviera e acquista una ‘forma mentis’ da Bayern cioè  tedesca. E i tedeschi hanno sempre battuto i boriosi francesi, come dimostra la Storia di altre e più vere battaglie di cui il calcio è solo una sia pur interessante metafora (la linea Maginot: in due settimane, passando attraverso i Paesi Bassi, Hiltler passeggiava sugli Champs Elysees godendone la bellezza perché, checché se ne dica, non era privo di gusto estetico).

La partita, dal punto di vista tecnico, non è stata bella, ma tesa ed emozionante com’è inevitabile in una finale di Champions. I problemi iniziano con Sky, a cominciare dai telecronisti che non fanno che discettare di schemi, “si sono messi a quattro”, “Tizio è stato spostato a sinistra”, “Caio gioca dieci metri più indietro”, invece di descrivere la partita e di restituirne le emozioni (nostalgia di Nicolò Carosio: “Così si gioca, palla avanti e pedalare” riferito al piccolo Muccinelli ala della Juve e della Nazionale o la mitica chiusa dopo una vittoria degli azzurri in Scozia: “E adesso andiamo a berci un buon wiskaccio!”, oggi arriverebbe subito la psicopolizia).

In studio conduce Ilaria D’Amico, brava quanto bella, quindi bravissima, che potrebbe essere impegnata anche in trasmissioni non sportive come rare volte, troppo rare, le è stato concesso di fare. Il parterre è sontuoso: Fabio Capello, Billy Costacurta, Alessandro Del Piero, il simpatico ‘Cuciu’ alias il Cambiasso di un’altra Inter. E’ chiaro che quando parla Capello, grande giocatore ma anche grande allenatore quindi con una visione complessiva del gioco, noi tifosi ci mettiamo tutti sull’attenti. E lo stesso vale, sia pure a un livello un po’ inferiore, per i Del Piero, i Costacurta, i Cuciu. Se si tratta quindi di spiegare il gioco tutto va bene. Il disastro comincia con le interviste agli allenatori e ai giocatori. Domande prive di sale e direi anche di senso che inducono gli intervistati a risposte altrettanto banali. Se chiedi a un giocatore che ha appena vinto la Champions quanta emozione ha provato che vuoi che ti risponda: “Tantissima. E' stato meraviglioso, stupendo, incredibile”. In quanto agli allenatori, ma qui torniamo al campionato italiano, devono restare necessariamente sul vago, per colpa dei media perché se dicono che Caio ha giocato bene il giorno dopo i giornali titoleranno che il tecnico ha detto che gli altri dieci hanno giocato male. Anche il giocatore, quand’anche abbia segnato tre goal, non può fare concessioni all’autostima, ma deve dire che è sempre e comunque “tutto merito del gruppo”. Perdi, non importa, c’è “un progetto”, altro termine intollerabile che va bene per un’azienda non per una squadra di calcio. Se perdi è meglio perché “cresci” e “cresce il progetto”. Che le sconfitte insegnino è vero, ma in linea di massima le partite è meglio vincerle che perderle.

Ai due allenatori, bravissimi,  entrambi tedeschi, Flick e Tuchel, qualche domanda l’avrei fatta. A Flick, intervistato da Sky, avrei chiesto perché a dieci minuti dalla fine (prevedibile recupero compreso) ha messo fuori Thiago Alcantara perno decisivo del gioco del Bayern per far posto a Tolisso. Una sostituzione incomprensibile perché i francesi avrebbero potuto ancora segnare e nei supplementari l’assenza di Thiago si sarebbe fatta sentire in modo pesante. Per sua fortuna il suo dirimpettaio Tuchel pochi minuti prima aveva fatto una mossa altrettanto incomprensibile, aveva messo fuori Di Maria che è Insostituibile per definizione, perché ha visione di gioco, lanci geniali alla Iniesta, disposizione a difendere quando occorre, gran tiro (un gol e due assist col Lipsia, tanto per dire).

Una domanda l’avrei fatta anche a Thiago Silva, pure intervistato da Sky. Thiago centrale del Paris aveva il compito, insieme al compagno Kipembe, di occuparsi di Lewandowsky. Robert Lewandowsky è da anni il miglior centravanti del mondo (per certi versi mi ricorda Ruud van Nistelrooy perché è un bomber assassino, ma sapendo giocare al calcio non è egoista, passa la palla al compagno meglio piazzato e contrasta con la dovuta durezza). Lewandowsky quest’anno ha segnato 55 gol in 46 partite e in questa Champions aveva segnato almeno un gol in ogni turno. Domenica non ha segnato. A Thiago Silva che a 35 anni ha affrontato nella sua carriera i migliori centravanti del mondo avrei chiesto come ha fatto a fermare Lewandowsky e che differenza c’è tra Lewandowsky e gli altri assi che ha incrociato. Gli avrei anche chiesto come mai la difesa del Paris, che da capitano comanda, si è fatta sorprendere sul colpo di testa di Coman, il più scarso del Bayern. Invece che gli han chiesto? Se era amareggiato. Ma vai a dar via el cu.

Domenica alla fine della trasmissione Ilaria D’Amico e suoi partner si sono autocelebrati. Con ragione perché giocandosi quasi una partita al giorno han dovuto faticare quanto i giocatori e forse anche un po’ di più perché mentre uscivano di scena le varie squadre uscivano di scena anche i loro giocatori, mentre D’Amico e gli altri han dovuto restare sul pezzo fino all’ultimo. In questa autocelebrazione avrei evitato qualche slinguata di troppo alla dirigenza Sky. Non è elegante. E a Ilaria D’Amico una cosa la direi: è vero che loro sono i migliori ma, avendo Sky il monopolio, giocano la partita senza avversari. Troppo facile, cara Ilaria.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2020