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Cadono i quarant’anni dalla “legge Basaglia”, così chiamata dal suo ideologo Franco Basaglia, che imponeva la chiusura degli ospedali psichiatrici, in lingua italiana manicomi, sui quali per dirla con lo stesso Basaglia doveva “essere sparso il sale”. La “legge Basaglia” è una dimostrazione plastica del detto di Chesterton: “l’errore è una verità impazzita”. Cominciamo dalle verità. E’ assolutamente vero che in Italia c’erano manicomi, pardon ospedali psichiatrici, come quello di Barcellona di Sicilia, in cui i pazzi, pardon “i malati di mente”, erano tenuti in condizioni disumane.  E’ anche vero che molte famiglie per liberarsi di un soggetto turbolento o comunque scomodo, magari un genio (qualcuno ricorderà forse il bellissimo film Beautiful Mind), lo facevano rinchiudere in un manicomio. L’errore sta nel fatto che la legge fu applicata da Basaglia e soprattutto dai suoi discepoli, spesso dei teorici che un matto vero non lo avevano mai visto in faccia, con una coerenza omicida. Chiusi infatti gli ospedali psichiatrici dove dovevano andare i malati di mente? Per “risocializzarli” dovevano tornare sul mitico “territorio” o in famiglia. La famiglia è esattamente il posto dove un malato di mente non deve tornare, perché è quasi sempre in famiglia che si è ammalato. Il “territorio” è un’illusione ottica. Nella società medievale, preindustriale, dalle piccole dimensioni del villaggio era possibile che la comunità si prendesse cura del pazzo, anzi quella società era riuscita a metabolizzare questa figura dandogli un ruolo pensando che avesse, per suoi misteriosi canali, uno speciale rapporto con Dio. Ma in città come Milano o Trieste o Roma il “territorio” non esiste. Uscendo sul “territorio” il malato di mente andava a finire semplicemente sotto un tram o un autobus e così la pratica era felicemente chiusa. Per Basaglia e i suoi quella di mente non era diversa da tutte le altre malattie, andava anzi terminologicamente abolita (Edgar Quinet nel 1865, quando l’astrazione dell’Illuminismo aveva già fatto parecchi danni, scriveva ne La Révolution: “E’ caratteristica essenziale della nostra società bizantina quella di mettere le parole al posto delle cose, nell’illusione di mutarne la sostanza”). All’inizio di questa follia, di Basaglia e dei suoi, non dei pazzi propriamente detti, poiché la malattia mentale, ammesso che esista, non è diversa da tutte le altre si mettevano questi malati insieme a tutti gli altri negli Ospedali generali. Si dovette fare qualche passo indietro quando si scoprì, con qualche meraviglia, che questi malati strappavano il catetere o i tubi dell’ossigeno agli altri. Ma la follia, di Basaglia e dei suoi, non si fermò di fronte a queste bazzecole. Quando i malati erano in “acuzie” come si dice in gergo medico, cioè davano fuori di matto in italiano, venivano ricoverati nei “repartini” speciali degli Ospedali generali. Ma in questi “repartini” non c’era nulla, nemmeno un flipper. Perché? Perché il malato di mente non doveva essere “istituzionalizzato” e per lo stesso motivo dimesso entro quindici giorni. Così cominciava il suo penoso elastico fra “repartini”, territorio, famiglia, finché non commetteva qualche sciocchezza e veniva sbattuto nei manicomi giudiziari, tipo Castiglion delle Stiviere, che oggi hanno un altro nome ma, seguendo Quinet, nella sostanza sono più o meno la stessa cosa. All’Antonini di Limbiate, Mombello per i milanesi, quel santo laico di Alberto Madeddu, un Mario Tobino  (Le donne di Magliano) delle nostre parti, aveva attrezzato una struttura dove c’erano la palestra, l’atelier di pittura, la sala cinematografica, la musicoterapia, il campo di calcio dove i malati facevano ergoterapia giocando con infermieri e medici deviando così la propria aggressività. Più o meno allo stesso modo, sempre a Milano, era organizzato il Paolo Pini, dove sentii un infermiere, molto lumbard, concreto e solido, dire a un medico basagliano tutto ideologico: “sì dottore, ma ci vorrebbe anche un po’ di umanità”. Tutto questo fu spazzato via in nome della teoria basagliana dello “spargere il sale”. L’unico supporto ai malati di mente, almeno quando feci per il Giorno un reportage di quattro puntate, nel 1984, a sei anni dal varo della legge Basaglia, dovevano essere i CPS, i centri psicosociali. Cioè per non ledere la dignità del malato di mente doveva essere costui a rivolgersi autonomamente a questi centri. Ora questo lo può fare un depresso o un nevrotico non uno psicopatico che crede di essere Gesù Cristo e che malati siano tutti gli altri (forse a ragione, non si può mai dire, ma certamente in questo modo il malato viene lasciato a se stesso).

Ma questa non è che una succinta epitome delle follie della follia di Basaglia e dei suoi. A quarant’anni di distanza non possiamo che contarne le vittime, in modo approssimativo perché le statistiche tacciono opportunamente e prevale tuttora il bla bla ideologico in cui cade anche un grande giornalista come Gian Antonio Stella.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2020