Il paziente lettore ricorderà forse la mia telenovela kafkiana con Sky. La riassumo nell’essenziale. Io sono un abbonato Sky, posso godere di tutta la sua produzione. Ma a me interessa solo il calcio di cui questo network ha l’esclusiva. Quando a metà estate sono ricominciate le partite di Champions mi sono precipitato sui canali Sky dedicati al calcio ma sullo schermo appariva l’odiosa scritta “mancanza di segnale”. Potevo vedere sport tipicamente americani, come il basket o il baseball, con i Los Angeles Lakers o i Golden State Warriors, di cui non me ne potrebbe fregar di meno, ma anche le trasmissioni di calcio parlato, non le partite. Contattare Sky, come ho raccontato, è stata un’odissea, quando finalmente ho raggiunto un essere umano costui mi ha risposto che la responsabilità era del mio condominio. Quando con molte difficoltà ho raggiunto il tecnico del condominio, tale Formichetti, costui non si è nemmeno peritato di salire sulla terrazza a controllare le parabole mettendomi in una posizione di debolezza con Sky che aveva gioco facile a rimpallarmi al condominio. Ma anche l’Amministratore del condominio Bressan ci ha messo del suo, cioè niente, perché si è completamente disinteressato della questione che riguardava, oltre a me, anche un altro coinquilino. Del resto si sa cosa sono, in genere, questi amministratori: degli architetti falliti. Se ho potuto vedere qualche partita è per i magheggi di mio figlio Matteo che è una specie di hacker.
Bene. Il 29 agosto è cominciato il Tour. Mi sono detto: perdio, il Tour non me lo toglie nessuno perché lo dà Rai2. Vado su Rai2 all’ora della tappa e sullo schermo appare la solita scritta “nessun segnale”. Vado allora su Eurosport che non è di Sky ma viene ospitato dalla piattaforma Sky. Lì per lì sembra funzionare ma ad un certo punto il telecronista comincia a balbettare. Oddio, non gli sarà venuto un coccolone? No, è il preannuncio di quello che avverrà poco dopo: sullo schermo appare…Telefono disperato a mio figlio che mi dice “vai sul 5002 e lì probabilmente puoi vedere le tappe”.
Anche il ciclismo subisce l’eccesso di razionalizzazione e di economizzazione. Non è più uno sport di campioni solitari che fanno imprese eccezionali, alla Pantani, ma è uno sport di squadra, il che appiattisce tutto. Cosa fa la squadra più forte che quest’anno è la Team Jumbo-Visma di Roglic, che ha un fortissimo sponsor? In una tappa impegnativa, di salita, mette davanti un suo uomo che tira a tutta. A quella velocità nessuno può azzardare uno scatto. Dopo che il primo ha fatto il suo lavoro, ne subentra un altro e un altro ancora. La corsa è paralizzata. Vengono fatti fuori campioni importanti che in altre circostanze potrebbero dire la loro ma che qui vengono pian piano eliminati, perché non reggono quel passo ossessivo com’è successo l’altro giorno a Quintana e al vincitore del Tour dell’anno scorso Bernal. Insomma sembra essere ritornati a quelle gare di eliminazione su pista dove ad ogni giro l’ultimo della fila finiva fuori.
Nostalgia del vecchio ciclismo. C’erano delle specificità nazionali. I velocisti erano tutti belgi e qualche olandese. Campioni delle “classiche”, le gare di un solo giorno. Italiani e francesi erano grandi scalatori o passisti scalatori che vincevano il Tour o il Giro (Coppi, Bartali, Magni, Nencini, che fumava come un turco e si faceva anche un whisky prima della partenza, Louison Bobet, Jacques Anguetil). Qualche scalatore solitario c’era anche in Spagna, Bahamontes per andare molto indietro, e per andare ancora più indietro, a prima della guerra, “Trueba la pulce di Torrelavega”. Vincevano tappe, mai un Giro. I soli ad essere rimasti se stessi, come da tradizione di un Paese dove non succede mai nulla, sono gli svizzeri. Cronoman eccezionali. Ai tempi di Anquetil e soci c’era Rolf Graf che vinceva tutte le cronometro. Ma se doveva stare in mezzo al gruppo era un disastro perché in gruppo si “lima”, come si dice in gergo, e lui non ne era capace. La tradizione è stata poi proseguita da Alex Zulle, peraltro anche passista scalatore e uomo da Giro, Tour e Vuelta (qualcuno ricorderà la crono di Trieste del 1998: 40 chilometri alla media di 53,77, record insuperato su quella distanza) da Fabian Cancellara e oggi Marc Hirschi (22 anni). Non c’è che dire, gli svizzeri sono sempre rassicuranti. Non solo nel ciclismo.
Quando ero ragazzo gli italiani tenevano ovviamente a Coppi, Bartali, Magni. Io tenevo a Rik Van Steenbergen, il più grande velocista di tutti i tempi. A me piacciono gli “assoluti”, quelli che in una determinata specialità sono imbattibili. Quando al Giro o al Tour si profilava un arrivo in gruppo mio padre che dirigeva Il Corriere Lombardo, quotidiano del pomeriggio, faceva mettere in piombo “1°Rik Van Steenbergen” per guadagnare qualche minuto sui rivali de La Notte di Nino Nutrizio. Di Van Steenbergen ricordo una memorabile vittoria nel Campionato del mondo (ne vinse tre) del 1957 a Waregem, in Belgio. Era il primo Campionato che trasmetteva la Tv. Ma le telecamere non erano mobili, erano fisse, si vedeva solo l’ultimo chilometro. Ad un certo punto lo speaker annunciò: “Sono fuggiti in sei, tre francesi, Louison Bobet, Jacques Anquetil, Dedè Darrigade e tre belgi, Fred De Bruyne, Rik Van Looy…”, e qui lo speaker fece una sapiente pausa ”…e Rik Van Steenbergen”. Dalla folla che seguiva la corsa sul circuito si levò un urlo: con Rik la vittoria era assicurata. Nell’ultimo chilometro c’era un ponticello le cui spallette coprivano i corridori. Ma sulle spallette si vide elevarsi una gobba, era Van Steenbergen che lanciava la volata agli ottocento metri (oggi un velocista se, dopo essere stato pilotato dai compagni, parte ai cento è già tanto). Alla sua ruota si mise l’infido Van Looy che teoricamente era un suo gregario, sperando di bruciarlo negli ultimi cento metri. E così fece. E qui si assistette a una scena comica. Uscito dalla scia di Van Steenbergen, che era alto 1,88 e possente, Van Looy invece di avanzare cominciò ad arretrare. Arriverà quarto o quinto. Negli ultimi anni era apparsa una nuova stella come velocista, lo spagnolo Poblet che aveva uno sprint fulminante negli ultimi cinquanta metri. In un Giro che doveva essere del 1961 o 62, non ricordo, Van Steenbergen aveva vinto in volata quattro tappe, Poblet pure. Ma c’era l’ultima tappa che si concludeva al Vigorelli. Era una sfida all’O.k Corral fra Van Steenbergen e Poblet. Sul circuito apparve prima Van Steenbergen con la scritta Cora su una maglia nera, che completava il suo aspetto piuttosto tenebroso. Dietro Poblet. Ai cinquanta metri Poblet lanciò il suo sprint micidiale ma Van Steenbergen con un colpo di reni formidabile lo fulminò. Van Steenbergen, che se avesse voluto avrebbe potuto anche correre per la vittoria in un Giro o in un Tour, in quello del 1951, vinto da Magni, si mise alle spalle Kubler e Coppi.
Vabbè, ho parlato come sempre del passato. Del resto “passato è bello” mi aveva soprannominato il mio caro amico Walter Tobagi che credeva di avere un grande futuro che gli fu invece spezzato da due ragazzi male educati.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2020