Nel 2021 si celebreranno i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri. Aldo Cazzullo, il noto editorialista del Corriere della Sera, ha anticipato tutti con un bel libro “A riveder le stelle”. La lettura che Cazzullo dà del Sommo Poeta è particolarmente interessante perché, a differenza di quella del pur ottimo Sermonti che si fissa molto sui simbolismi della Divina, che pur ci sono ma che per noi hanno ormai uno scarso significato, ci restituisce un Dante in carne e ossa, con la sua vita, le sue passioni, le sue idee, i suoi pensieri. Del resto la Divina Comedia è di fatto una autobiografia (“ogni filosofia è un’autobiografia” scrive Nietzsche). Dato per scontato che Dante fonda, in modo meraviglioso, la lingua italiana (nel libro di Cazzullo vengono richiamati molti detti che sono penetrati profondamente nel linguaggio comune, attuale, anche se noi non ce ne rendiamo più conto) e che, insieme a Leopardi, è il massimo letterato del nostro Paese e, a livello mondiale, sta con Shakespeare e pochi altri, Dante come persona esce a pezzi da questa autobiografia mascherata, anche se Cazzullo, che ne condivide evidentemente in qualche modo le idee, cerca di dissimulare in tutti i modi l’indecenza della povertà umana del Sommo Poeta.
Dante è un uomo vendicativo. Non c’é personaggio, anche di notevole spessore, che non ficchi nei gironi peggiori dell’Inferno solo perché gli han fatto un qualche sgarbo o si sono schierati dalla parte politica opposta alla sua, si tratti di Guelfi Neri o Ghibellini. Non c’è città italiana che sfugga alle sue invettive, da Firenze che lo esiliò, a Pisa “vituperio delle genti”, alla garbata Siena, a Genova descritta come sentina di tutti i vizi. E’ un manicheo. E’ irriconoscente anche verso chi negli anni suoi bui gli diede generosamente una mano, come i conti Guidi che lo ospitarono più volte ma nei quali riesce comunque a trovare qualche macchia. Ispirato da Virgilio, il suo ‘doppio’, fa grandi concioni sulla pietas, che è un concetto latino piuttosto estraneo al mondo cattolico cui Dante aderisce ‘toto corde’, ma non ne ha nessuna per i suoi avversari. E’ un legalista, un pio devoto all’ordine superiore e non per nulla tutta la Divina è organizzata in modo gerarchico. E’ un moralista insopportabile a un occhio moderno. Il climax lo raggiunge non proprio nella Divina ma nella tenzone che ebbe con Forese Donati a cui ne dice di tutti i colori: “Non è figlio di suo padre, come Cristo non lo era di Giuseppe; è brutto, sfregiato, goloso, grasso, e non paga i conti; la moglie Nella è raffreddata anche d’agosto, perché dorme sola mentre lui è in giro con altre donne o a rubare; pure i suoi fratelli trascurano le mogli, forse perché preferiscono gli uomini” (Cazzullo traduxit). In un colpo solo son sistemati i brutti, i grassoni, le persone che non corrispondono a un canone di bellezza standard, le donne, gli omosessuali.
In Dante ci devono essere delle gravi turbe psichiche. Non si descrivono con minuzia di particolari, godendone, gli spaventosi tormenti dei dannati se non si ha una personalità sadomasochista. Nella bolgia dedicata ai falsari ne vede uno talmente gonfio da sembrare un liuto, una sorta di mandolino più grande, come se la testa e il busto formassero il manico e la pancia la cassa armonica dello strumento. In un altro passaggio dedicato a due ladri Buoso Donati e Francesco Cavalcanti (padre del delicato poeta, suo amico) li accoppia fondendo così l’uno nell’altro: il serpente divenuto uomo ritrae il muso appuntito per trasformarlo in una faccia, cui spuntano le orecchie, si forma il naso e si ingrossano le labbra e all’uomo divenuto serpente le orecchie si ritirano come le corna della lumaca e la lingua si biforca, mentre l’altra lingua che era biforcuta si richiude. Certo non manca la fantasia al Poeta, ma è una fantasia malata, horror, da Grand Guignol o alla Dario Argento.
Nell’ultimo cerchio dove Lucifero sta ben piantato nel ghiaccio è punito il tradimento supremo: la ribellione al potere legittimo, la rivolta contro la divinità. Dante non coglie, e non può cogliere, a differenza di Milton (“meglio esser primi all’Inferno che in Ciel servire”) la grandezza appunto luciferina di Satana, il più bello degli Angeli, il primo ribelle della Storia. Come non coglie, là dove ne accenna, la grandezza, molto più terrena e concreta, di Lucio Sergio Catilina che si ribellò al potere del Senato romano, cioè dei latifondisti che con parole moralistiche coprivano i loro interessi economici, andando fino in fondo alla sua storia ben sapendo che alla fine di questa storia c’era solo la morte (Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta). Si dirà che Dante esprime lo zeitgeist, cioè lo spirito del suo tempo, ma Cecco Angiolieri, che gli è contemporaneo, sta su tutt’altra sponda. Cecco come poeta non è Dante, ma socialmente riflette una componente di quella società che non ci stava al “politically correct”. Dante è estraneo a questa epica perché è tutto fuorché un ribelle.
Insomma, diciamolo pure, Dante persona fa un certo senso, cosa non nuova nei grandi artisti. Se si legge la biografia di Proust, di quest’uomo che si dilettava nel veder vivisezionare i topi, ne esce una persona che uno non avrebbe voglia di frequentare nemmeno per una semplice bicchierata al bar, e lo stesso Pasolini, esempio più vicino a noi, con la sua voglia di umiliare le ‘marchette’ al di là di ogni limite (finché una di queste, “Pino la Rana”, esasperato, non lo ucciderà) è molto diverso dal Pasolini coltissimo, creativo, controcorrente che siamo abituati a leggere sulla pagina o a vedere nei suoi film (peraltro a volte non riusciti). Queste zone d’ombra dei grandi artisti sono spesso all’origine della loro grandezza, non salirebbero alle stelle se non si fossero immersi fino in fondo nelle stalle.
Col libro di Cazzullo ripercorriamo, grazie a Dante, buona parte della letteratura greca e latina che lo hanno preceduto. Inoltre in Cazzullo, che sembra avere un’ottima conoscenza della mappa del nostro Paese, sia in senso geografico che storico, ritroviamo monumenti, lapidi, iscrizioni, di cui anche la persona mediamente colta ha perso contezza.
Cazzullo confronta poi i peccati di ieri, che Dante illustra con abbondanza di perfidia, con quelli di oggi. Attualizza cioè Dante. E questa è forse una delle debolezze del suo libro perché qui il giornalista del Corriere ridiventa cronista. Non c’è bisogno che a proposito dei ‘falsari’ ci rifaccia tutta la storia del Monte dei Paschi di Siena che il lettore conosce benissimo. Come inutili e noiose sono le pagine dedicate alla tragedia del Vajont dove, anche mettendocela tutta, non si riesce a cogliere una connessione con l’Inferno, se non nel Fato che è un concetto greco del tutto estraneo a Dante per il quale tutto dipende, dicendola col Manzoni, dalla Divina Provvidenza.
E alla “fin della tenzone” non so se in questa recensione ho stroncato solo la persona del Sommo Poeta o, con una perfidia prettamente dantesca, anche il mio amico Aldo Cazzullo.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2020