Donald Trump, detto familiarmente “The Donald”, fuor d’America ha sempre goduto di pessima stampa sia quando era al potere sia, forse soprattutto, adesso che, pur recalcitrante, lo sta per abbandonare. Per me, devo dirlo, “The Donald” è stata una vera manna perché non ero più il solo a criticare i gloriosi United States of America. “The Donald” non piace all’impronta per il suo aspetto esteriore, per quei suoi capelli che sembrano, e probabilmente sono, posticci come i peli tirati di un gatto, con improbabili riflessi biondi (ma il Berlusca, che pur in Italia gode dell’appoggio di una buona metà della stampa, tanto che si candida alla Presidenza della Repubblica, non è rifatto da capo a piedi?) per la sua innata trivialità e per i suoi tweet che trasudano maschilismo, razzismo, omofobia. Oggi in politica, e non solo, l’apparenza e il modo di comunicare sono tutto, o quasi, tanto che esiste una particolare specializzazione, quella del coach aziendale che insegna ai manager come fare i manager, non dal punto di vista pratico (e i risultati si vedono) ma estetico e del porgersi. Ho avuto una fidanzata, Chiara, che faceva questo mestiere, e lei e i suoi simili facevano fare ai manager degli esilaranti “giochi di ruolo” con biglie, calcetto ed altri esperimenti del genere. Io che con le donne sono vilissimo ascoltavo pazientemente, ma sbottai una volta che mi disse che una delle metodiche (“metodiche”, “tempistiche”, “problematiche” sono termini che oggi fan parte dello pseudo-italiano, ma non sarebbe più semplice dire metodi, tempi, problemi?) per valutare le capacità di leadership di un manager era metterlo davanti a un cavallo e osservare le sue reazioni, del tipo, non del cavallo. Le dissi: ”Scusa, Chiara, non credo che al-Baghdadi per conquistare la leadership si sia messo davanti a un cavallo, forse l’avrà montato, più probabilmente avrà estratto il kalashnikov al momento opportuno”.
Per noi che apparteniamo al passato, e fra breve al trapassato, più che di queste sciocchezze ci importa la sostanza. E se guardiamo l’attività di “The Donald” da questo punto di vista il giudizio diventa un poco diverso. E’ con Trump che è iniziato il ritiro delle forze americane dall’Afghanistan ed è sotto la sua presidenza che è stato annunciato quello dall’Iraq (sia detto di passata: una guerra costata, in modo diretto o indiretto, 650mila morti infintamente di più di quanti ne abbia fatti Saddam Hussein, secondo un calcolo molto semplice fatto da una rivista medica britannica che ha messo a raffronto i morti durante gli anni del potere del raìs di Baghdad e lo stesso numero di anni dell’occupazione yankee). Sia pure nel suo modo goliardico, giocando a chi “ce l’ha più grosso”, Trump ha trovato il modo di allentare l’eterna tensione con la Corea del Nord.
Storicamente gli americani sono “isolazionisti” e Donald Trump, che pur è un repubblicano anomalo, sembra continuare questa tradizione, spezzata brutalmente da George W. Bush che ha disseminato il mondo, soprattutto quello mediorientale, di guerre che sono venute regolarmente in culo all’Europa finendo per creare il “mostro” Isis (ma neanche i democraticissimi Clinton, guerra alla Serbia del 1999, e Obama, guerra alla Libia in supporto ai francesi, hanno scherzato).
Per quel che si può giudicare da qui Joe Biden sembra una brava persona, certamente molto meno urticante di Trump che però aveva un pregio proprio nella sua brutale schiettezza che, a mio modo di vedere, è meglio dell’ipocrisia. Non credo però che con Biden possa cambiare la sostanza delle cose. L’America è un paese imperiale e imperialista. Gli americani si sentono e si credono ancora i padroni del mondo. Il Novecento è stato il “secolo americano”, ma il futuro non è più “iuessei”, è della Cina che senza fare stupide guerre con droni e bombardieri punta sull’economia e ha già conquistato mezza Africa e parti dell’Europa e anche del mondo islamico, radicale e non, o forse, dell’Isis.
Il Fatto Quotidiano, 21/11/2020