Secondo un sondaggio Ipsos la maggior preoccupazione degli italiani (78%) per i mesi e gli anni a venire non è la salute ma l’economia, in particolare la possibilità di perdere il posto di lavoro ammesso che ciò non sia già avvenuto (come ci informa il Fatto.it già più di mezzo milione di precari e di autonomi ha perso il famigerato “posto di lavoro”, inoltre a marzo, cioè fra pochissimo, scade il blocco dei licenziamenti).
Per quanto possa sembrar strano, addirittura sbalorditivo a noi moderni, in era preindustriale non esisteva il problema, per noi oggi così pressante, del “posto di lavoro”, nel senso che tutti ce l’avevano e non potevano perderlo. Quella società era composta al 90% da contadini e artigiani. Se il contadino era proprietario della terra viveva del suo e sul suo, se la aveva in concessione dal feudatario (in genere per 99 anni) è vero che non poteva lasciare la terra (il cosiddetto “servo della gleba” o, più gentilmente, “servo casato”) ma è anche vero che non poteva esserne cacciato. I contadini vivevano insomma di autoproduzione e autoconsumo e solo le carestie, che in Europa avevano cadenza trentennale, potevano metterli in crisi. Ma anche all’artigiano era garantito uno spazio vitale perché gli statuti artigiani proibivano la concorrenza che invece è la stella polare del nostro sistema. Così come era proibita la pubblicità delle proprie botteghe e dei propri prodotti, quella pubblicità che oggi è la linfa stessa della concorrenza (tout se tien). Ma, si dirà il lettore, senza concorrenza che cosa impediva allora all’artigiano di produrre manufatti mediocri? C’è una ragione, diciamo così, legale, e un’altra psicologica. Quegli stessi statuti imponevano standard molto severi sotto i quali non era possibile scendere, ma era innanzitutto lo stesso artigiano che per amor proprio voleva dare sempre il meglio, il cosiddetto capodopera, al compratore (ancora oggi i tombini più antichi di Milano conservano le iniziali di chi li concepì).
Nel clima di crisi occupazionale torna di moda il vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti”. Nella sua ‘Nota diplomatica’, quel curioso personaggio di James Hansen che fu console statunitense in Italia, ci informa che diverse multinazionali fra cui Unilever e Microsoft stanno sperimentando la “settimana corta” che avrebbe un doppio vantaggio: una maggior concentrazione del dipendente in un minor numero di ore di lavoro e risparmio energetico. Si tratta insomma di un cottimo al contrario, io ti spremo di più e quindi tu lavori di più, che non risolve il problema, perché il numero dei lavoratori rimarrebbe lo stesso dato che non avrebbe senso per queste aziende, viste le premesse da cui partono, assumere altri lavoratori.
Io penso che abbiamo utilizzato malissimo le straordinarie tecnologie che abbiamo inventato. Avrebbero potuto servire per far fare alla tecnica una buona parte del lavoro e lasciare agli uomini maggior tempo per se stessi. Invece l’abbiamo usata per cacciare la gente dai posti di lavoro che già occupavano per andarsene a cercare altri più modesti, sempre più modesti o addirittura chimerici. Facciamo un esempio semplice, semplice. Nelle giornate di piena i dieci caselli dell’Autostrada, poniamo, Genova-Milano, erano occupati da esseri umani. Ora ce n’è uno solo, tutti gli altri sono automatizzati. Che fine han fatto gli altri nove? A quei caselli dovrebbero lavorare sempre dieci operatori, ma con orario dimezzato. Questo sarebbe il famoso “lavorare meno, lavorare tutti”. A dirla pare semplice, ma evidentemente non è così nelle infinite interconnessioni della società attuale di cui abbiamo avuto anche un esempio, solo un esempio, nella difficoltà delle Autorità, politiche, scientifiche ed economiche, nel definire esattamente, in epoca Covid, una filiera di produzione.
Il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2021