In un articolo sul Fatto del 12/1 mi auguravo che l’“affaraccio” Trump e le sue stravaganti, chiamiamole così, dichiarazioni su Twitter stimolassero un dibattito serio sulla Democrazia. In realtà poiché alcuni grandi social media hanno chiuso la porta in faccia a Trump bloccando i suoi account, cioè in realtà impedendogli di parlare, il dibattito si è accentrato sulla libertà di espressione, se questa non conosca limiti e soprattutto se sia uno degli elementi fondanti della democrazia liberale. Anche nella democrazia liberale il diritto di parola, scritta o parlata, incontra dei limiti nei diritti altrui. Esistono i reati di diffamazione e ingiuria e, in Italia, che pur è considerata una democrazia sia pure imperfetta, reati chiaramente liberticidi ereditati dal Codice Rocco come il vilipendio alla bandiera, al Capo dello Stato, alle Forze Armate. Che i reati di diffamazione, che colpiscono soprattutto noi giornalisti, debbano essere sanzionati penalmente, in qualsiasi Paese, democratico o non democratico, è fuori discussione. Anche l’onorabilità delle persone eventualmente offese è un valore tutelato giustamente dalla legge. Intollerabili sono invece i reati che abbiamo ereditato dal Codice Rocco (quelli che ho citato, vilipendio alla bandiera, al Capo dello Stato, alle Forze Armate) perché sono classici reati di opinione che in una democrazia non dovrebbero esistere. Più inquietanti ancora sono i reati introdotti nell’Italia repubblicana con la legge Mancino del 1993 che punisce i cosiddetti “crimini d’odio” cioè, semplificando, l’odio razziale, etnico, religioso, perché di per sé istigherebbero alla violenza. È di fatto il reato che oggi si addebita a Donald Trump. Ho già scritto che l’odio, come la gelosia, l’invidia, l’ira, è un sentimento e come tale non può essere compresso da una legge penale. Io ho il diritto di odiare chi mi pare, pure, anche se questo non è molto intelligente, intere etnie o comunità. Nemmeno i regimi più autoritari hanno osato mettere le manette ai sentimenti, le hanno messe alle idee, alle opinioni e soprattutto alle azioni. In una democrazia liberale tutte le idee, anche quelle che ci paiono più aberranti, dovrebbero avere il diritto di cittadinanza, con un unico e fondamentale discrimine: buone o cattive che siano, non possono essere fatte valere con la violenza. Io ho il diritto di odiare un malgascio, ma se gli torco anche solo un capello devo andare dritto e di filato in gattabuia.
La questione autentica, che in questi giorni i media, concentrati, in seguito alle ‘stravaganze’ di Trump, sulla libertà di espressione, hanno bypassato sta nella domanda: che cos’è in realtà la democrazia liberale? E qui nascono i problemi. Norberto Bobbio, che ha dedicato la sua lunga e laboriosa vita allo studio della democrazia, in un primo momento aveva individuato nove elementi costitutivi della democrazia liberale, poi, constatando che molti di questi elementi erano presenti anche in altri sistemi, era sceso a sei, poi a tre e infine ha partorito questa definizione: “Per regime democratico s’intende primariamente un insieme di regole e di procedure per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile degli interessati”. Una definizione così evanescente da non significare in realtà nulla. Il grande giurista austriaco Hans Kelsen (ma anche Schumpeter) è andato più a fondo affermando in sostanza che la Democrazia è innanzitutto e soprattutto un metodo, è costituita da una serie di procedure formali, avalutative, cioè prive di contenuto e di valori (dal momento che quelli che vengono sbandierati come propri del sistema, la libertà o l’uguaglianza o la rappresentanza, sono, secondo Kelsen, delle mere fictio iuris, delle finzioni giuridiche), per determinare la scelta dei governanti sulla base del meccanismo del prevalere della volontà della maggioranza. La Democrazia non è quindi un valore in sé, il suo valore si definisce dai contenuti che stanno all’interno del perimetro costituito dalle procedure. Ciò che resta fermo e invalicabile è che queste procedure non possono essere cambiate in corso d’opera se non seguendo le regole che queste stesse procedure dettano per arrivare a un tale cambiamento. Ma anche questo limite è stato sfondato, come ci avverte Norberto Bobbio, sulla cui lealtà democratica non ci possono essere dubbi. Scrive Bobbio: “Altro è la costituzione formale, altro è la costituzione reale e materiale”. Che cos’è questa costituzione materiale che salta fuori improvvisamente, dopo tanto parlare di leggi, di norme, di procedure, di regole del gioco sacre e inviolabili? La “costituzione materiale” è quella che le oligarchie partitiche ed economiche creano violando giorno dopo giorno la Costituzione formale, con buona pace di Marco Travaglio, cioè proprio le famose “regole del gioco”. E quando si viola la Costituzione formale per sostituirla con una “fai da te”, creata dalle oligarchie senza il consenso dei cittadini, senza che nemmeno siano stati messi nella condizione di esprimerlo, ponendoli di fronte al fatto compiuto, la Democrazia non è più tale. Dunque siamo di fronte alla finzione di una finzione.
Tuttavia il problema vero è un altro. Ammettiamo pure, anche se ciò di fatto non accade, che queste procedure formali siano rispettate. Di che cosa abbiamo riempito questo sacco vuoto, non solo in Italia ma nell’intero Occidente democratico? Siamo stati capaci di riempirlo solo di contenuti quantitativi e materiali. Ed è questo il vero problema dell’intero Occidente, della sua mancanza di valori autentici, che non siano quelli del meccanismo “produci-consuma-crepa” per dirla con i CCCP, meccanismo che si autopotenzia in continuazione nello stesso tempo in cui ci degrada, col nostro consenso, che è l’unico vero consenso che esprimiamo, non quello delle elezioni, da uomini a consumatori. Insomma la Democrazia non è che l’involucro legittimante di questa caramella avvelenata. Per questo le categorie politiche nate con la Rivoluzione francese, declinate in senso liberista o marxista, economiciste, cioè la Destra e la Sinistra, che pur hanno avuto per un paio di secoli un ruolo importante, oggi, agganciate a questo meccanismo paranoico, hanno perso il loro senso, perché non sono più in grado di intercettare le autentiche esigenze dell’uomo contemporaneo che, per quanto sembri paradossale dirlo proprio oggi, non sono economiche, sono esistenziali.
Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2021