DEMOCRAZIA (DUE). Noi paghiamo della gente perché ci comandi. Un masochismo abbastanza impressionante che, come notava Jacques Necker nel 1792, “dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione”. Noi diamo invece la cosa per pacifica, scontata e non ci pensiamo più. Ma farebbe sbellicare dalle risa un Nuer. I Nuer sono un popolo nilotico che vive nelle paludi e nelle vaste savane dell’odierno Sudan meridionale. Un Nuer non solo non paga nessuno perché lo comandi, ma non tollera ordini da chicchessia. I Nuer infatti non hanno capi e nemmeno rappresentanti. “È impossibile vivere fra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino. Il Nuer è il prodotto di un’educazione dura ed egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile; nessuno riconosce un superiore sopra di sé. La ricchezza non fa differenza… Ogni Nuer considera di valere quanto il suo vicino”. Così li descrive l’antropologo inglese E. E. Evans Pritchard che, negli anni trenta, visse fra loro a lungo e li studiò (I Nuer: un’anarchia ordinata).
Un miracolo? O, quantomeno, un’eccezione? Fino a un certo punto: si tratta infatti di una di quelle “società acefale”, di quelle “anarchie ordinate” nient’affatto rare nel Continente Nero prima della dominazione musulmana con le sue leggi religiose incompatibili con la libertà e, soprattutto, prima che arrivassimo noi con la nostra democrazia teorica, in salsa liberale o marxista. Quella dei Nuer è quindi una società di “liberi e uguali” basata sulla violenza. Perché se si offende un Nuer, o anche solo la sua mucca, ci si becca un colpo di zagaglia, questo è certo. I Nuer e le comunità ad essi consimili erano quindi riusciti a coniugare uguaglianza e libertà, due poli apparentemente inconciliabili su cui i figli dell’Illuminismo, i liberali e i marxisti, si accapigliano da un paio di secoli facendo elaborazioni raffinatissime ma senza cavare un ragno dal buco. Una bella lezioncina per la democrazia liberale, la socialdemocrazia e la cosiddetta “democrazia popolare” o socialista, che non sono mai state in grado di coniugare libertà e uguaglianza, riuscendo piuttosto, quasi sempre, nell’impresa di mortificare entrambe.
Ma quella dei Nuer è, come osserva ancora Evans Pritchard, “una democrazia basata sulla violenza”. E questo è intollerabile non solo per la coscienza ma per la struttura stessa di una società moderna, dove è lo Stato ad avere il monopolio della violenza con le sue Istituzioni, il suo esercito, le sue mille polizie (la pula, i caramba, la guardia di finanza), i servizi segreti, la magistratura. “Lo Stato? Il più freddo di tutti i mostri” lo definisce Nietzsche. Ma su questo punto torneremo più avanti. Per il momento ci piace raccontare ancora qualcosa dei Nuer, ad uso e consumo degli esteti della “cultura superiore”, di coloro che avallano Guantanamo, Abu Graib e il rapimento di Abu Omar (do you remember presidente D’Alema? Do you remember Matteo Renzi?). I Nuer hanno avuto rapporti con una sola altra comunità, quella dei Dinka, loro vicini, perché tutto il resto del territorio è infestato dalla mosca tze-tze che non garba né agli uni né agli altri. I Nuer, popolo bellicoso, razziavano i Dinka e questi, più subdoli, rubavano il bestiame ai Nuer. In queste razzie i Nuer uccidevano molti Dinka, ma altri ne facevano prigionieri. Chi li aveva in custodia non poteva ordinare a un prigioniero Dinka nemmeno di portargli un bicchier d’acqua: è un ospite e va trattato come tale. Consuetudine che si è conservata fino a oggi presso alcuni popoli che definiamo “tradizionali”.
Ma torniamo alla Democrazia. La Democrazia esisteva quando non sapeva d’esser tale. Nei “secoli bui”, buissimi del Medioevo, l’assemblea del villaggio formata dai capifamiglia, quasi sempre uomini, ma anche donne se il marito era assente, decideva su tutto ciò che riguardava il villaggio: votava le spese e procedeva alle nomine, decideva della vendita, scambio e locazione dei boschi comuni, della riparazione della chiesa, del presbiterio, delle strade e dei ponti, riscuoteva au pied de la taille i canoni che alimentavano il bilancio comunale, poteva contrarre debiti e iniziare processi, nominava, oltre ai sindaci, il maestro di scuola, il pastore comunale, i guardiani di messi, i riscossori di taglia… L’assemblea interveniva nei minimi dettagli della vita pubblica, in tutti i minuti problemi dell’esistenza campagnola. (A. Soboul, La società francese nella seconda metà del settecento). Questo sistema funzionò benissimo fino al 1787, due anni prima della Rivoluzione, quando, sotto la spinta razionalizzatrice della borghesia e dei suoi interessi avviene un mutamento radicale: non è più l’assemblea del villaggio a decidere direttamente, ma nomina dei suoi rappresentanti. Era cominciata la tragedia, direi la farsa, della democrazia rappresentativa.
Le democrazie rappresentative non sono delle vere democrazie, ma piuttosto, come ammettono Bobbio e Sartori, delle poliarchie, cioè delle aristocrazie mascherate. Fra le oligarchie democratiche e le aristocrazie storiche c’è però una differenza sostanziale. Gli appartenenti alle aristocrazie vere e proprie si distinguono perché posseggono delle qualità specifiche, vere o anche presunte ma comunque credute tali dalla comunità. Nel feudalesimo, occidentale e orientale, i nobili sono coloro che sanno portare le armi, in certe epoche dell’antico Egitto la professione di scriba conduceva alle cariche pubbliche e al potere, in Cina la conoscenza dei numerosissimi e difficili caratteri della scrittura era la base della casta dei mandarini, in altre realtà la casta sacerdotale era creduta in possesso di doti particolari per mediare con la divinità oppure l’autorità era conferita agli anziani in quanto ritenuti detentori del sapere. Come dicevamo nei precedenti articoli dedicati alla Democrazia (Il Fatto, 17 e 21/1/2021), chi appartiene alle oligarchie democratiche non ha qualità specifiche. La classe politica democratica è formata da persone che hanno come elemento di distinzione unicamente, e tautologicamente, quello di fare politica. Poiché non è necessaria alcuna qualità prepolitica la selezione della nomenklatura è autoreferenziale, puramente burocratica, avviene all’interno degli apparati di partito attraverso lotte oscure, feroci, degradanti, spesso truffaldine. L’oligarca democratico è un uomo senza qualità. La sua sola qualità è di non averne alcuna. Il che gli consente una straordinaria adattabilità e duttilità. Insomma il trasformismo, tabe storica della democrazia, specialmente di quella italiana, di cui oggi abbiamo sotto gli occhi abbondanti esempi. Ci possono essere anche ottime, oneste, persone che ci governano, quale io considero, per esempio, Giuseppe Conte, ma anche lui è costretto a sporcarsi le mani con manovre sudice. Il problema, a questo punto, non è degli uomini ma di un sistema che costringe a corrompersi anche chi, per sua natura, non vi sarebbe portato. Questo sistema si chiama Democrazia rappresentativa.
Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2021