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Forse non tutto il Covid vien per nuocere. Certo quando il Covid verrà definitivamente sconfitto avremo, per ritessere la tela di un’economia lacerata, un rilancio della produzione e dei consumi. Troppe persone sono allo stremo per poter fare diversamente. Ma rimesse le cose a posto potrebbe cambiare il trend sul quale ci eravamo abituati a vivere prima dell’epidemia. Le persone potrebbero aver riscoperto il gusto e il valore delle piccole cose, delle piccole gioie. Per esempio, in una regione ridiventata ‘gialla’, il piacere di poter pranzare all’aperto con un amico o un’amica. È la privazione che ci fa comprendere i valori della vita. Eraclito lo aveva già detto ventisei secoli fa: “La malattia rende piacevole la salute e di essa fa un bene, la fame rende piacevole la sazietà, la fatica il riposo”. L’uomo postCovid potrebbe aver compreso che non è necessario consumare compulsivamente il superfluo, il voluttuario, l’inutile per star bene con se stesso e con i suoi simili, senza per questo doversi ridurre a una vita d’asceta. Una riduzione dei consumi comporterebbe necessariamente una parallela riduzione della produzione che dovrebbe concentrarsi sui beni essenziali. Questo darebbe anche un senso e un contenuto a quel sacco vuoto che è, per ora, il Ministero della “transizione ecologica” voluto fortemente da Beppe Grillo (anche se ovviamente  il discorso non riguarda l’Italia ma tutto il mondo consumistico). Perché non c’è green o bio, più o meno sinceri ed autentici, che tenga se non si riduce drasticamente  la produzione. Ogni energia, anche quelle più pulite, se utilizzata in modo massivo è, in una forma o nell’altra, inquinante. Un foglio di carta in una casa è innocuo, diecimila fogli ti tolgono l’aria, ti soffocano. Se davvero l’uomo postCovid, ridiventato tale e non più ridotto a consumatore costretto a ingurgitare il più rapidamente possibile quanto altrettanto rapidamente produce, seguisse la via di una relativa riduzione invece di continuare sulla strada di una progressiva e indefinita espansione, allora si aprirebbe un varco per quella che Maurizio Pallante, un pensatore che non a caso è stato oscurato, ha chiamato con felice espressione (la tautologia è qui inevitabile) “la decrescita felice”. Del resto Pallante riprende da due correnti di pensiero americane: il neocomunitarismo e il bioregionalismo. Il neocomunitarismo  guarda al ritorno di una specie di feudalesimo senza feudatari, cioè a piccole comunità solidali che non abbiano sopra di sé alcun potere, né personale né statuale. Il bioregionalismo coniuga il comunitarismo, che è sostanzialmente un localismo, con l’ambientalismo. In pratica queste correnti di pensiero propongono “un ritorno, graduale, limitato e ragionato, a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano per un recupero della terra e il ridimensionamento drastico dell’apparato industriale e finanziario”.

Mi piacerebbe molto credere all’ipotesi di Pallante, col quale anni fa tentammo di fare fronte comune, ma non penso che le cose andranno così. La decrescita non sarà “felice” ma improvvisa e sanguinosa. Passato lo spavento del Covid, che avrebbe dovuto insegnare qualcosa, i reggitori della terra e tutti coloro che sono legati ai loro interessi o ai loro interessi piegati rilanceranno ulteriormente, approfittando proprio dell’abbrivio dato dalla ricostruzione, il modello di sviluppo che, partito intorno al Quattrocento con l’affermazione del mercante (poi imprenditore, poi finanziere) e sviluppatosi quindi con la Rivoluzione industriale e le sue successive evoluzioni, è oggi egemone. Questo modello si basa sulle crescite esponenziali che esistono in matematica ma non in natura. Tutto ha un limite. Non solo le fonti di energia ma anche la capacità della tecnologia, aiutata dal cervello umano, di autoinnovarsi (la famosa Singularity di cui parlava Gianroberto Casaleggio) o, se si preferisce, del cervello di potenziarsi costantemente attraverso la tecnologia. Quando, in un modo o nell’altro, non potremo più crescere ci sarà il collasso del modello, rapidissimo, nel giro di qualche mese, forse di qualche settimana. Si riproporrà la situazione che si ebbe dopo il crollo dell’Impero romano e delle sue strutture che diede origine al feudalesimo europeo. Ma l’Impero romano era uno sputo, seppur importante, del vasto mondo di allora, oggi il modello è pressoché globale e il collasso sarà globale.

Quando nei primi Ottanta rimuginavo su queste cose, che sono all’origine della mia opera storico-filosofica, pensavo che questa catastrofe ci avrebbe raggiunto non prima di un centinaio di anni. Ma da allora le cose sono andate sempre più veloci, sempre più veloci, già adesso siamo immersi dentro una serie infinita e quasi indecifrabile di connessioni, in una complessità quasi insostenibile che sorpassa anche le giovani generazioni e le rende vecchie, obsolete, in pochissimo tempo.

Nel 1982 feci per Pagina un’inchiesta che Aldo Canale ed io intitolammo “Scienza amara”, intendendo con ciò segnalare i pericoli cui ci esponevano  la velocità assunta dalla Scienza tecnologicamente applicata e la Tecnologia stessa, idolo incontrastato allora come ora. Andai a Ginevra a intervistare Carlo Rubbia che allora dirigeva il CERN. Rubbia mi ascoltò infastidito, ritenendomi un “apocalittico”. Allora gli dissi: “Professor Rubbia, lei è un fisico e le faccio una domanda per la quale vorrei una risposta da fisico. Non è che andando a questa velocità noi stiamo accorciando il nostro futuro?”. Rubbia ci pensò un po’ poi ammise: “È così”. “Io vedo l’uomo tecnologico scendere una ripidissima strada in sella ad una lucente bicicletta senza freni. All’inizio era stato piacevole, per chi aveva pedalato sempre in salita e con immane, penosa fatica, lasciarsi andare all’ebbrezza e alla facilità della discesa, ma ora la velocità continua ad aumentare e si è fatta insostenibile, finché ad una curva finiremo fuori” (La Ragione aveva Torto?, 1985).

Massimo Fini

 Il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2021