Poiché le autorità ci impediscono tutto, la sera vedo cassette di vecchi talk e mi sono imbattuto in un “Uno contro tutti” del Costanzo Show, dove “l’uno” era Vittorio Feltri. Che splendido Feltri era quello su cui non era ancora passata la pesante ala di Berlusconi. Anche fisicamente (sono passati quasi trent’anni ed entrambi, coetanei, ci siamo logorati in tante battaglie che ci hanno visto prima fianco a fianco e poi duramente contrapposti), ma soprattutto intellettualmente. Ha impartito, con eleganza, garbo e persino un pizzico di umiltà, una vera lezione di giornalismo, anche dal punto di vista puramente tecnico, ma ovviamente non solo di giornalismo, alla ristretta platea di “nani e ballerine” che doveva fargli il contropelo (Margherita Boniver, Pecoraro Scanio, Sandro Curzi, Marco Giusti fra i tanti). A chi gli contestava di essere troppo vicino alla Lega di Bossi ha spiegato che quando compare un fenomeno nuovo, magari anche allarmante, il primo dovere di un giornalista è cercare di capirlo e di analizzarlo senza preconcette demonizzazioni. Ha difeso Antonio Di Pietro (che Berlusconi, che diventerà poi il padrone del Giornale, definirà “un uomo che mi fa orrore”) e la magistratura. Ha affermato: “Io sono garantista, ma sono garantista per tutti, non solamente per i politici, i quali si accorgono che è necessario essere garantisti solamente adesso che sono colpiti, e questo è macroscopicamente ingiusto”.
Era questo il Feltri dell’Indipendente, passato sotto la sua direzione dalle 19.500 copie cui l’aveva lasciato l’ectoplasma simil-anglosassone Ricardo Franco Levi alle 120.000, un record ineguagliato nel giornalismo italiano del dopoguerra. Del resto anche all’Europeo, che aveva diretto prima di affrontare l’avventura dell’Indipendente, aveva fatto benissimo: da 78.000 copie a 120.000, se non ricordo male.
Non pensi il lettore che io voglia elogiare il giovane Feltri a spese del vecchio. Non è questo. Il mio è un rimpianto. Il rimpianto di un’occasione mancata e dell’irripetibile stagione di Mani Pulite di cui, oltre a Feltri, e in questo caso più di Feltri, furono protagonisti Di Pietro, Bossi, Gianfranco Funari. Una stagione che avrebbe potuto cambiare la storia del nostro Paese, che invece mancò l’obbiettivo perché, nel giro di soli due anni, tutti i poteri forti dell’ancien régime, partitici ed economici, ripresero il controllo della situazione.
L’Indipendente fu favorito da parecchie circostanze, alcune esterne e addirittura lontane, e altre interne. Il collasso dell’Urss, quindi la minaccia dell’”orso russo” non c’era più, non valeva più il “turatevi il naso” di Indro Montanelli, e molti voti che erano stati democristiani, ma anche di altri partiti, confluirono sulla nascente Lega. E la comparsa della Lega, cioè di una vera forza di opposizione, poiché il Pci, poi diventato Pds, si era associato al potere, liberò le mani dei magistrati di Mani Pulite, che presero ad arrestare centinaia di politici corrotti. Nell’Indi c’era una redazione giovane, molto motivata, vogliosa di riscatto, e il vice di Feltri era Maurizio Belpietro, un formidabile “secondo” (in seguito dimostrerà di essere anche un buon direttore). Nei primi tempi io accompagnavo in giro Feltri per propagandare il nostro fragile giornale (60 dipendenti in tutto). Nella giornata, Vittorio faceva una sola telefonata a Belpietro, verso le sei, e Belpietro sapeva interpretare alla perfezione le intenzioni del direttore. Tutto andava bene ed eravamo già in fase di sorpasso del Giornale e se Montanelli se ne fosse andato via, com’era pressoché certo, perché aleggiava già la figura di Berlusconi non più imprenditore ma divenuto uomo politico, ci sarebbero arrivate 40 o 50.000 copie senza colpo ferire. Inoltre né Feltri né io, che ho avuto una parte in quella storia, eravamo compromessi coi partiti dell’ancien régime, mentre gli altri giornali, che in quella schiuma sporca avevano nuotato, dovevano andarci molto cauti, dovevano scrivere col freno a mano tirato (“Dieci domande a Tonino”, editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera). Nonostante la malinconia di fondo che è ciò che più intimamente ci unisce, parlo di Feltri e di me, per una volta eravamo davvero felici.
Una sera d’agosto del 1993 Feltri mi invita a cena. Non nei luoghi esclusivi che in seguito gli sarebbe piaciuto frequentare, ma in una pizzeria sotto casa mia. E mi fa la terrificante domanda: “Se vado al Giornale, vieni con me?”. Gli dissi di no e cercai di spiegargli che era un errore professionale, politico e anche personale: “Guarda che la libertà che abbiamo oggi non la ritroveremo mai più”. Finita la cena, un po’ brilli, alzammo i calici e Vittorio esclamò: “In culo al Berlusca, restiamo all’Indi”. Questa scena si ripeterà altre due o tre volte. L’ultima, il giorno dopo firmò per il Giornale e si portò via tutti i migliori editorialisti, e la struttura portante. Io che ero rimasto cocciutamente all’Indi, gli davo del “traditore”, del “voltagabbana”, ma lui, che pur è permalosissimo come tutti i polemisti, non se la prese più di tanto. Una sera, quando aveva già lasciato l’Indipendente per il Giornale, cioè per Berlusconi, ci trovavamo a Bergamo, la sua città, e il pubblico che era tutto di parte leghista prese a insultarlo pesantemente. Intervenni e dissi: “Non potete dimenticare quanto Feltri ha fatto per la Lega”. Sottobanco, Vittorio mi prese la mano e me la strinse. Io, che sono un sentimentale, questo episodio lo ricordo, lui non so. Ma anche dopo, seppur in un modo molto ondivago, continuammo ad avere rapporti. Se avevo un articolo che nessuno avrebbe osato pubblicare, telefonavo a Vittorio. A una durissima inchiesta sul commendevole gruppo Rizzoli-Corriere della Sera diede due colonne di spalla in prima pagina e due pagine all’interno. Ogni riga, se non fosse stata veritiera, era da querela. Ma nessuno del commendevole gruppo alzò orecchia. Il 31 maggio del 2007, quando dirigeva Libero, gli inviai un pezzo che iniziava così: “Vorrei essere un talebano, avere valori fortissimi che santificano il sacrificio della vita, propria e altrui. Vorrei essere, per lo stesso motivo, un kamikaze islamico. Vorrei essere un afghano, un iracheno, un ceceno, che si batte per la libertà del proprio paese dall’occupante, arrogante e stupido. Avrei voluto essere un bolscevico, un fascista, un nazista che credeva in quello che faceva. O un ebreo che, nel lager, lotta con tutte le sue forze interiori per rimanere un uomo…Vorrei essere e vorrei essere stato tutto, tranne quello che sono e sono stato per sessant’anni e passa: un uomo che ha vissuto nella democrazia italiana”.
Tutto si può dire di Vittorio Feltri, tranne che non abbia un intuito giornalistico. Un intuito che non è semplicemente narcisistico, autoreferenziale, alla Oriana Fallaci, ma che è sempre messo al servizio del giornale e dei suoi lettori. A parer mio Vittorio Feltri è stato il miglior Direttore della sua, e mia, generazione, e anche di un paio di quelle precedenti.
Negli ultimi tempi ci siamo irrimediabilmente guastati. Mi ha attaccato e fatto attaccare con prose così vili e sciocche da far disonore a chi le firma. Però, nonostante tutto questo, voglio dire qui: grazie Vittorio.
Il Fatto Quotidiano, 12 marzo 2021