0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

“Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola qua” (Celentano, Azzurro). E così dopo averci fottuto il Natale, dopo averci fottuto le vacanze sulla neve, dopo averci fottuto la Pasqua, ci fotteranno anche l’estate. E visto che abbiamo preso la strada dei lockdown fin dall’inizio è la cosa più ragionevole da fare. L’errore più grave del governo Conte è stato di aprire le gabbie la scorsa estate senza prevedere quello che i suoi stessi tecnici avevano previsto e del resto era ovvio: la seconda ondata. Errore cui si è aggiunto quello di non rinforzare adeguatamente i trasporti ricorrendo anche, se necessario, alla requisizione di mezzi privati. In un’economia di guerra, quale è quella in cui stiamo vivendo, si ricorre anche a metodi di guerra. Quando si sono violati tutti i diritti di libertà personale non si vede perché non si dovrebbe violare anche il sacro diritto di proprietà. Se il governo Draghi dovesse aprire le gabbie per l’estate ci sarebbe una quarta ondata che porterebbe a un nuovo lockdown che porterebbe successivamente a una riapertura e quindi a una quinta ondata, a una richiusura, in una spirale di cui non si intravede la fine. Né è lecito sperare troppo nei vaccini, come si sta facendo, perché il virus muta in continuazione. Ci sono già in circolazione quattro o cinque varianti che noi chiamiamo inglese, brasiliana, sudafricana, nigeriana solo perché la mutazione è stata individuata la prima volta in quei Paesi, magari lontani e le riteniamo perciò meno preoccupanti, ma in realtà si tratta sempre dello stesso virus, sia pur mutato, tant’è che la cosiddetta ‘variante inglese’ copre già i due terzi del nostro territorio e quindi non è affatto inglese. In ogni caso il commissario straordinario, generale Figliuolo, prevede che si raggiungerà l’immunità dell’80% della popolazione a fine settembre. Estate fottuta quindi. Si salveranno solo quelli che abitano in regioni di mare, perché benché il nostro, con Draghi, sia diventato a tutti gli effetti uno stato di polizia, dubito molto che la pula riesca a far sloggiare dalle spiagge i bagnanti ma sarebbe meglio dire gli aspiranti tali perché negli ultimi anni ho notato che sempre meno persone nuotano, preferiscono starsene sul bagnasciuga o là dove si tocca. Evidentemente temono di sentirsi male in acqua e di lasciarci le penne. Non c’è altra ragione, perché in un mare dove si conoscono le correnti non si corre alcun pericolo nemmeno se è leggermente mosso (solo Sgarbi, questo ‘D’Annunzio de noatri’, è riuscito a farsi abbattere, con un effetto irresistibilmente comico, da un’ondina di 30 centimetri). La bandiera nazionale è diventata la paura, non è più il Tricolore.

L’Italia è una penisola in mezzo al Mediterraneo e quindi la maggioranza delle nostre regioni è bagnata dal mare, ma ce ne sono alcune, molto popolose, Lombardia e Piemonte, che non lo toccano. Cesare Pavese e Paolo Conte hanno cantato in modo magistrale cosa significhi il mare per chi abita “al di qua delle colline”. Mare ed estate coniugano il più proibito dei nomi: felicità. È d’estate, al mare, che si intrecciano gli amori come raccontano decine e decine di canzoni, almeno le canzoni di un tempo, quelle di oggi parlano più volentieri di soldi. Niente felicità per milanesi e torinesi. Ed è, forse, un giusto contrappasso perché hanno distrutto la Riviera ligure, coprendola di cemento, da La Spezia a Ventimiglia (con l’eccezione virtuosa delle Cinque Terre).

Dice: se non puoi andare “al di là delle colline” puoi andare però sulle colline (in montagna no, alla tua età fa male per la pressione) e lì stai al fresco e ti riposi. Gli è che è un riposo che somiglia un po’ troppo all’eterno riposo. È pieno di vecchi perché i vecchi al mare non ci vanno ritenendo, non a torto, che faccia male. Allora il lago. Ho vissuto per dieci anni, sia pure a mezzadria, a Lugano e ogni volta che guardavo il lago mi veniva in mente il mar (“vide un lago ed era il mar”, il Prode Anselmo). Il lago mi mette una “infinita tristeza”. Allora fattene una ragione e resta a Milano. Luglio è il mese più caldo dell’anno e Milano è un forno avvolto dalla caligine (niente cielo azzurro, caro Adriano) con un insopportabile effetto phon, un forno comunque trafficatissimo dalle automobili perché per ragioni storiche (la Fiat e tutto il suo enorme indotto si fermava solo ad agosto) gli italiani a luglio restano in città. Di persone in giro invece non se ne vedono, per il caldo i milanesi non osano uscire di casa, si fanno lockdown da soli. Se sopravvivo mi divertirò a mandare i conti dei morti e degli impazziti per il caldo, a Milano, a Draghi e ai suoi generali.

Insomma il terrorismo epidemiologico delle Autorità, appoggiato da un poderoso apparato massmediatico, quando non ci toglie la vita ci toglie ciò che è più importante: la voglia di vivere. È vero che una coscienza che si spegne si spegne per sempre. Ma è altrettanto vero che il tempo perduto è perduto per sempre. Il tempo non torna indietro. Penso, poniamo, ai ragazzi e alle ragazze di 14 e 15 anni che vengono derubati del periodo più inquieto ma anche più denso della vita: l’adolescenza. Ed è anche vero che, secondo le statistiche (viviamo ormai di statistiche), l’età media dei morti per Covid è di 81 anni per gli uomini e 86 per le donne. C’è un’età in cui è decente morire e, in certe condizioni, è indecente vivere.

Il terrorismo epidemiologico non è che una specializzazione del terrorismo diagnostico che a sua volta è figlio del principio assunto dalla Scienza medica secondo la quale il prolungamento della vita è il suo principale fine e il bene supremo. Secondo questa ideologia dovremmo fare, qualsiasi età si abbia, sei checkup l’anno, non bere, non fumare. Dovremmo vivere da vecchi fin da giovani. Siamo tutti “a rischio”. È ovvio: è vivere che ci fa morire.

Già Max Weber, nel 1918, aveva messo in dubbio questa impostazione: “La scienza medica non si pone la domanda se e quando la vita valga la pena di essere vissuta. Tutte le scienze naturali danno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro fini” (Il lavoro intellettuale come professione). Ma ciò involge una questione che va oltre la tecnologia medica e riguarda la Tecnica in se stessa. È stato Martin Heidegger ad affrontare il fondamentale problema della Tecnica e della sua ambivalenza, dei suoi effetti positivi e negativi sulla nostra vita. Heidegger è l’ultimo filosofo degno di questo nome (non possiamo considerar tali Cacciari e simili, che, come dice Ivano Fossati, sono, se va bene, dei docenti di filosofia. Del resto la filosofia è greca e tedesca). Ed Heidegger era attivo negli anni Trenta del Novecento. Vuol dire che da allora non c’è più un pensiero che pensi sé stesso. Heidegger conclude la sua poderosa riflessione con questa frase semplice, semplice: “Dio ci salvi dalla Tecnica”. Se Dio non ci pensa, pensiamoci noi.

Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2021