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“Io non mi sento italiano” è un album di Giorgio Gaber pubblicato postumo. Vi si sente tutta l’amarezza, la disillusione, il disincanto di un uomo che ha attraversato la vita italiana dal 1939 al 2003. Gaber ed io siamo più o meno della stessa mandata, la nostra vita si è svolta in campi diversi, ma esistenzialmente abbiamo vissuto lo stesso tempo. Ma per trovare un’Italia diversa da quella attuale, con dei valori, non è necessario, come fa Giorgio, rifarsi al Rinascimento. Basta ricordare tempi assai più recenti che entrambi abbiamo vissuto, quelli del dopoguerra e degli anni successivi. Allora l’onestà, cardine di ogni convivenza civile, era un valore per tutti, per la borghesia, se non altro perché dava credito, per il mondo contadino, dove violare la stretta di mano costava l’emarginazione dalla comunità, per il mondo proletario che aveva una sua etica sia pur diversa, nei modi ma non nella sostanza, da quella di noi giovani borghesi. La solidarietà, che oggi ci si vorrebbe imporre dall’alto, stava nelle cose. A parte una sottilissima striscia di borghesia che aveva però il buon gusto e il buon senso di non ostentare la propria ricchezza, eravamo tutti più o meno poveri. Ed è fra poveri e non fra ricchi che ci si dà una mano. Milano, dove Gaber, come me è nato, era una città di quartieri e nel quartiere ci si conosceva e ci si aiutava tutti (la fame no, nell’Italia che ho conosciuto io la fame, almeno nel dopoguerra, non c’è mai stata). Non bisogna dimenticare, fra le altre cose, che Milano è una città che ha una tradizione cattolica e socialista. Noi ragazzi vestivamo tutti allo stesso modo, calzoncini quasi all’inguine con i quali giocavamo a calcio in strada o nei terrain vague che gli americani ci avevano lasciato come regalo dei bombardamenti. Le griffe, le scarpe firmate, non esistevano ancora. Questo clima durò fino al boom economico e, per qualche anno, anche oltre. Il boom lo vivemmo in modo ingenuo, naif, non volgare. Era bello, per ragazzi e adulti, dopo che per anni si era tirata la cinghia, assaporare un po’ di benessere. Ma un tarlo invisibile e silenzioso aveva cominciato a corrodere le nostre vite. Nel 1960 entrai per la prima volta, col mio amico Giagi, in un Supermarket. Ci sembrò il Paese di Bengodi. Era invece il cavallo di Troia entrato in città e che ci avrebbe tolto, per sempre, l’innocenza.

Ma erano comunque ancora i Sessanta, gli “anni blu” della mia giovinezza, ciò che per Fitzgerald era stata “l’età del jazz”. Ma quel che di ludico e libertario c’era stato nella contestazione giovanile era ormai agli sgoccioli. Arrivarono le Brigate Rosse che presero sul serio le parole d’ordine che i figli dei borghesi gridavano durante le manifestazioni, “fascista basco nero, il tuo posto è al cimitero”, “uccidere un fascista non è un reato”. Il Sessantotto fu, per usare una frase che Luigi Einaudi applicò alla massoneria, “una cosa comica e camorristica”, figli della borghesia che avrebbero dovuto rovesciare la borghesia, una cosa che avrebbe fatto rivoltare nella tomba il vecchio Marx. Ma nelle prime BR, a differenza del Sessantotto, c’era ancora un contenuto ideale sia pur espresso in modi e in tempi sbagliati perché il marxismo-leninismo cui si richiamavano sarebbe morto di lì a poco. È vero che i primi brigatisti non sembravano avere alcuna considerazione della vita altrui, ma a rischio della propria. In seguito anche nel terrorismo ci sarà una deriva che ha parecchio a che fare con quella della società civile che stava nel frattempo maturando. Per i brigatisti di seconda e terza generazione la vita altrui continuava a non contar nulla, ma della propria avevano grande considerazione. L’omicidio di Walter Tobagi, consumato da due giovani male educati, segnerà il culmine di questa fase, e infatti Barbone e Morandini, a differenza dei primi brigatisti, si pentiranno subito per avere i vantaggi della legislazione premiale. È il segno, sia pur sub specie terrorista, di un individualismo sfrenato che sta invadendo la nostra società.

Finito il terrorismo arriveranno gli anni Ottanta, i beati anni della “Milano da bere”. Per la verità se la bevevano soprattutto i socialisti. Ma il denaro girava e gli italiani credettero a questo nuovo boom. E non vollero vedere ciò che c’era sotto, e cioè che la classe dirigente, politica ed imprenditoriale, si era venuta corrompendo in modo sistematico. Fu Mani Pulite, nel ’92-94, ad aprir loro gli occhi. E fu l’ultima volta che la popolazione italiana, di fronte all’arroganza del potere, provò un legittimo e sincero sdegno. Ma nel giro di soli due anni, anche grazie all’appoggio massiccio dei media a loro volta corrotti fino al midollo, i magistrati divennero i veri colpevoli e i ladri le vittime. E qui si ruppero gli ultimi argini. Di fronte a simili esempi anche il cittadino normalmente onesto si chiese “ma devo essere solo io il più cretino della partita?”. E così la corruzione, fattuale ma, cosa ancor più grave, morale, discese giù per li rami invadendo quasi l’intera società civile. Lo dimostra il fatto che non era venuta meno tanto la sanzione penale quanto quella sociale. Prendo il caso di Luigi Bisignani solo a titolo di esempio. Bisignani fu condannato a due anni e sei mesi nell’ambito dell’inchiesta Enimont, cioè per un reato contro la PA. Si penserebbe che un soggetto del genere nella pubblica amministrazione non potrebbe metter più piede. Invece lo troviamo a metà degli anni Novanta come consigliere dell’ad delle FS Necci condannato per lo scandalo di quella che verrà chiamata “Mani Pulite 2”. Diventerà in seguito consigliere di Paolo Scaroni, ad dell’Eni. Oggi Bisignani è un editorialista di vari giornali. Insomma importanti amministratori dello stato o del parastato non avevano nessuna remora a frequentare un soggetto come Luigi Bisignani che Wikipedia non riesce a definire meglio che come “faccendiere”. Quello che voglio qui dire è che erano saltati tutti i valori, preideologici, prepolitici, prereligiosi, che avevano contrassegnato il tessuto sociale dell’Italia degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta: onestà, onore, dignità, lealtà, rispetto delle regole. Chiunque tu ti trovi di fronte oggi non puoi sapere se è una persona per bene o un corrotto. In fondo è la storia del “mondo di mezzo” romano allargato a livello nazionale.

Tentando di fare un ritratto dell’Italia contemporanea scrivevo nel mio libro “Senz’anima” del 2010: “È un’Italia (…) devastata dalla Televisione che sembra aver concentrato in sé l’intera vita nazionale dettando, insieme alla sua gemella Pubblicità che è il motore di tutto il sistema, i consumi, i costumi, la ‘way of life’, le categorie, i protagonisti e che ha finito per distruggere ogni cultura che non sia la sua subcultura. È un’Italia che ha perso ogni freschezza, la sua antica grazia, senza sorriso, cupa, volgare, ossessionata dal denaro, dal benessere, dagli ‘status symbol’, dai gadget, dagli oggetti. Un’Italia ipocrita, pronta a commuoversi su tutto, solo per potersi autocompiacere della propria commozione, ma sostanzialmente indifferente all’altro, al vicino, al prossimo. Un’Italia senza misericordia. Un’Italia ormai inguaribilmente corrotta, nelle classi dirigenti come nel comune cittadino, intimamente, profondamente mafiosa, come sempre anarchica ma senza più essere divertente, priva di regole condivise, di principi, di valori, di interiorità, di dignità, di identità. Un’Italia senz’anima”.

Giorgio Gaber è morto nel 2003. Ma potrebbe dire oggi ancor più di allora: “Io non mi sento italiano”.

Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2021