Grande prestazione della Danimarca. Non della sua squadra di calcio, che all’esordio ha perso 0-1 con la Finlandia, ma dei giocatori danesi e, direi, della società e della civiltà scandinava tanto lontana dalla nostra che, per definirla tale, ci vuole, per riprendere Gaber, “fantasia”. Quando Chris Eriksen si è accasciato a terra i giocatori danesi, guidati dal loro capitano Kjaer, il roccioso centrale del Milan, che era stato il primo a raggiungere il compagno steso a terra, sbloccandogli la lingua, che si era incastrata fra i denti, come accade negli attacchi di epilessia, e probabilmente salvandogli la vita, si sono schierati in linea, non di fronte come quando ascoltano gli inni nazionali prima della partita, ma di spalle per proteggerlo dagli obbiettivi della Tv, in questo caso Sky che aveva l’esclusiva, e dai voyeur, televisivi e non. Siamo un po’ troppo abituati a definire ‘eroi’ persone che fanno semplicemente il loro dovere. Ebbene Kjaer eroe lo è stato davvero perché ha saputo conservare la freddezza nel momento in cui ci voleva freddezza, ma poi, poiché è un uomo e non uno di quei ‘warriors’ di fantaplastica che le televisioni, Sky in testa, ci ammanniscono quotidianamente, è crollato psicologicamente e ha detto al suo allenatore che non se la sentiva di riprendere la partita.
Quando un calciatore si accascia a terra senza essere stato nemmeno sfiorato da un avversario i giocatori restano impietriti. Paralizzati dal terrore. Sono nel fiore della giovinezza, sono forti, controllati quasi quotidianamente dalle migliori equipe mediche. Si sentono invulnerabili. E all’improvviso ecco che si presenta sul terreno di gioco uno spettro. Lo spettro della morte.
Nel gennaio 2004 mentre si giocava la partita fra il Benfica e il Vitòria il giocatore ungherese Miklos Feher fu colto sul campo da un malore simile a quello di Eriksen, più grave perché risulterà letale. Nel caso di Miklos Feher le televisioni si accanirono nel mostrare quel corpo giovane, apparentemente intatto ma evidentemente già minato in alcune sue fibre più intime, che si arrovesciava all’indietro e lentamente si stendeva a terra allargando alla fine le braccia in segno di resa. Solo vent’anni prima il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, 62 anni, tradito dalla tensione, si era accasciato sul palco durante un comizio che stava tenendo a Padova. Tutte le Tv interruppero il collegamento. Non perché Berlinguer fosse un personaggio famoso, ma perché non è lecito a nessuno mostrare gli attimi della fine biologica di una persona (se l’evento è dinamico la cosa si presenta in modo diverso) che sono i momenti più intimi e riservati della vita di un uomo e come tali vanno rispettati. Negli ospedali i malati terminali, quando sentono arrivare il momento del dunque, si voltano verso il muro, non vogliono essere visti. In soli vent’anni, da Enrico Berlinguer a Miklos Feher, questo pudore era scomparso.
Oggi il voyerismo del macabro non conosce più limiti. Di un episodio inqualificabile è stata protagonista proprio Sky Tg 24. Crolla il ponte Morandi. Un uomo che si trova abbastanza vicino comincia a filmare, poi rendendosi conto dell’oscenità di ciò che sta facendo butta lo smartphone e corre verso il luogo della tragedia nella speranza di poter dare una mano. Arrivano quelli di Sky, si impadroniscono del telefonino e, a buio, fanno sentire tutto: le urla disperate, le invocazioni di aiuto, i gemiti delle persone in agonia. Sky avrebbe dovuto avere la coscienza dell’uomo che gettò il cellulare rinunciando a quel macabro scoop, ricordando che la libertà di informazione deve pur avere qualche limite, almeno quello della decenza.
Proprio in questi giorni Sky sta mandando in onda un film, Alfredino – Una storia italiana, che facendo esercizio di molta retorica riesce a volgere in positivo quella vicenda. In realtà si tratta di una delle pagine più buie della recente storia italiana come scrissi a suo tempo (“L’infamia di Vermicino”, Corriere medico, 17/6/81). Ricordiamo. Siamo nel giugno dell’81. Un bambino di sei anni, Alfredino Rampi, cade in un pozzo artesiano per circa 200 metri. È vivo. Sul posto si precipitano i pompieri, personaggi miracolosi di ogni sorta come “il microbo del Tufello”, seguiti da decine di Tv che si portano dietro i curiosi. Ad aggravare la situazione ci pensò il presidente Pertini che, convinto che alla fine la cosa si sarebbe risolta, voleva nel suo imperdonabile narcisismo appropriarsi di questo salvataggio e invece portò ulteriore confusione in una situazione già difficilissima. Per tre giorni le Tv trasmisero le invocazioni del bambino, sempre più deboli, sempre più soffocate, e infine la sua ultima agonia. La sola cosa da fare per rispettare Alfredino Rampi era spegnere la Tv. Io mi trovavo a Pescara in quel momento. Entrai in un bar e vidi una folla di voyeur che assisteva allo spettacolo come si trattasse di una partita di calcio. Uscii e, nonostante il mio mestiere in qualche modo mi autorizzasse, non ne volli saper nulla.
È turpe, è osceno, fare spettacolo dell’agonia di un bambino. Così come sarebbe stato osceno mostrare Chris Eriksen sospeso fra la vita e la morte. I calciatori danesi lo hanno capito. Noi non so.
Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2021
"È la malattia che rende dolce la salute", Eraclito.