Chi ha vinto le recenti elezioni amministrative? Io. Perché appartengo da sempre a quel movimento degli astensionisti che in questa tornata si è confermato come prima forza politica del Paese, lasciando, col suo 46%, i partiti, anche quelli che credono di avere vinto o piuttosto dicono di avere vinto, a una distanza siderale. Una vittoria “a paletti” come si dice in gergo ippico. E a quel 46% andrebbero aggiunte le schede bianche e nulle, dati che il Viminale si guarda bene, prudentemente, di fornire, di cittadini che, pur disgustati dalla politica, vogliono comunque onorare il rito democratico.
Né ci si può consolare affermando, come ho sentito dire, che anche nelle altre democrazie occidentali l’affluenza alle urne è piuttosto scarsa (comunque sempre intorno al 65, 70%). Perché il voto non voto – anche il non voto è un voto - ha ragioni opposte. Nelle altre democrazie non si va a votare perché i cittadini si fidano della propria classe politica e quindi vinca l’uno o l’altro fa poca differenza. In Italia al contrario il non voto esprime una profonda diffidenza nei confronti della classe politica. Ci si può chiedere se un Paese dove una persona su due non va a votare sia ancora una democrazia. E infatti non lo è. È una partitocrazia, che è cosa diversa. La partitocrazia esaspera tutti gli elementi negativi della democrazia. La selezione della classe dirigente non avviene per merito perché, a differenza delle aristocrazie storiche, l’uomo politico democratico, e tanto più partitocratico, non possiede qualità specifiche, la sua sola qualità è tautologicamente quella di fare politica. Sono i professionisti della politica secondo la classica definizione di Max Weber. “Poiché non è necessaria alcuna qualità prepolitica la selezione della nomenklatura è autoreferenziale, puramente burocratica, avviene all’interno degli apparati di partito attraverso lotte oscure, feroci, degradanti, spesso truffaldine” (Sudditi. Manifesto contro la Democrazia). In una situazione particolarmente degradata come quella italiana, dove si è perso il senso di valori condivisi, dove i partiti occupano non solo l’intero settore pubblico ma condizionano pesantemente anche quello privato, un sistema del genere porta inevitabilmente verso l’illegalità. Per prevalere su un mio compagno di partito o su un altro sono disposto a tutto. E questa situazione di illegalità diffusa coinvolge spesso anche chi volentieri ne starebbe fuori. Non è tanto quindi una questione di uomini, perché nella nostra classe dirigente ce ne sono anche di capaci, ma di sistema. Per non farci mancar nulla assistiamo negli ultimi tempi, non solo da parte della cerchia berlusconiana che per motivi facilmente intuibili è sempre stata contro la Magistratura, a un tentativo di delegittimazione di quello che viene sprezzantemente chiamato il “manipulitismo” di cui si è fatto vessillifero anche Luciano Violante che pur è un ex magistrato. Insomma si tende a togliere di mezzo anche l’unico momento in cui la classe dirigente è stata chiamata a rispettare quelle leggi che tutti noi abbiamo l’obbligo di seguire. La classe politica sta dandosi da sola il calcio dell’asino. Non c’è quindi da meravigliarsi se molti e sempre di più si astengono per non legittimare questo gioco sporco.
Qualcuno ha ululato di gioia perché, dando già per scomparsi, peraltro un po’ prematuramente, i 5 stelle che pur avevano come uno dei punti fermi la legalità, si tornerebbe al bipolarismo. Ma che senso avrebbe questo bipolarismo. Sarebbe un bipolarismo senza ideali, asettico. Che cosa ci sia di sinistra nell’attuale Sinistra è difficile capire (“D’Alema dì qualcosa di sinistra, dì qualcosa”, Nanni Moretti) in quanto a questa destra definirla tale è un oltraggio alla Destra, una categoria storica che ha avuto una certa importanza.
Per tutto ciò, paradossalmente, a uscire vincitore da questa tornata elettorale è Silvio Berlusconi, non per la vittoria di Occhiuto in Calabria dove ha votato il 43%, ma perché si propone e viene proposto come federatore di sinistra, centro, destra in una grande ammucchiata da cui a essere escluso è solo il normale cittadino. Del resto il “delinquente naturale” sarebbe il presidente della Repubblica ideale perché rappresenta al meglio il peggio degli italiani.
L’altro paradosso è che a uscire vincente da queste elezioni è una perdente: Virginia Raggi. Ritengo quasi miracoloso che abbia ricevuto il 19% dei voti, dopo che per cinque anni è stata sottoposta ad un fuoco di fila di cui non ricordo l’uguale. Non aveva fatto ancora in tempo a mettere piede in Campidoglio che il Corriere della Sera apriva su due pagine una rubrica titolata “Caos Roma”. Improvvisamente si scoprivano i rifiuti di Roma, le buche di Roma, i topi di Roma, le rane di Roma e qualsiasi altro animale compreso l’Ippogrifo. Raggi, oltre ad aver dimostrato una tenuta nervosa straordinaria per una così giovane donna, ha molti meriti soprattutto per essersi dedicata alle periferie romane (qualcuno ricorderà, forse, il suo intervento in prima persona per far sloggiare i Casamonica da stabili che avevano occupato abusivamente per farvi entrare chi ne aveva diritto, è solo un esempio). Ma il suo torto maggiore è di aver cercato, in armonia con i principi dei 5 stelle, di riportare legalità in una città che vive di illegalità.
Infine. Sono decenni che ci rompono il cazzo con il femminismo. Per una volta che due donne, Appendino e Raggi, hanno raggiunto posizioni apicali in genere riservate agli uomini, si è fatto di tutto da parte dei media e di coloro che li controllano per stroncarle. E poi sarei io il misogino.
Il Fatto Quotidiano, 06 Ottobre 2021