Raramente ho provato un godimento come in questo periodo di campagna presidenziale. Ho visto profilarsi giorno dopo giorno la completa débâcle non della politica, che è altra cosa, ma della partitocrazia. La crisi prima che di uomini è di sistema, il sistema partitocratico che se non è proprio la mafia molto gli assomiglia.
Naturalmente, parlando di uomini e non di sistema, c’è chi esce peggio e chi un po’ meglio da questa tornata elettorale. La maglia nera spetta di diritto a Matteo Salvini. Ha proposto 23 candidati diversi e ventitré volte se li è visti bocciare. Ha trascinato così nella slavina personaggi peraltro impresentabili come Maria Elisabetta Alberti Casellati, Marcello Pera, Giampiero Massolo (Massolo chi?). Ma anche personaggi più degni sono stati bruciati dall’endorsement salviniano. Il suo era il classico “bacio della morte”.
Il Pd di Enrico Letta ha giocato di rimessa come se avesse di fronte il Bayern di Robert Lewandowsky e non il Greuther Furth o l’Augsburg. E quindi non ha toccato palla. Del resto è molto incerto che esista ancora un Pd se lo si intende come partito di sinistra.
I 5stelle avevano il maggior numero di grandi elettori ma sono riusciti ugualmente a non contar nulla a causa delle divisioni al loro interno, fra Conte, l’antropodemocristiano Di Maio e il movimentista Grillo che non si è ancora accorto che il suo movimento non esiste più.
Chi esce parecchio ammaccato da questa tornata è Mario Draghi che abbandonata la sua algida figura è stato visto aggirarsi nelle vie intorno a Palazzo Chigi e a Montecitorio con un piattino in mano per pietire i voti da questo o da quello. Del resto l’idolatria per Sua Emergenza non capisco bene da che cosa derivi. I quattrini per il Recovery Fund li ha ottenuti il governo Conte. A Draghi quei soldi tocca solo spenderli. Ma risulta che dei 51 programmi che dovremmo presentare all’Unione Europea nessuno è ancora a punto e quindi tantomeno approvato.
In questi giorni non potendo sempre intervistare i leader, o cosiddetti tali, costantemente impegnati in trattative segrete ma a loro detta “trasparenti”, i cronisti si sono sguinzagliati alla caccia di qualche peone. Abbiamo quindi visto gente che non avevamo mai visto né tantomeno conosciuto. Una marmaglia di disperati cui non affidereste l’amministrazione di un condominio. Io mi auguro che in questi giorni gli italiani, vincendo il disgusto, abbiano guardato le tv, perché a quella vista non può che sorgere spontanea la domanda: ma noi dobbiamo farci governare, anzi comandare, da questi qui?
La sola a uscire vincente, come è stato ammesso da tutti, è Giorgia Meloni. A parte la parentesi di “Berlusconi for President” è entrata in conclave con un’idea e coerentemente, a differenza degli altri, con quell’idea ne è uscita. Se alle prossime elezioni vince il cosiddetto centrodestra sarà lei il premier.
Molto bene si è portato Pier Ferdinando Casini, l’eterno Pierferdi. Aveva tutti i numeri per fare il Presidente della Repubblica soprattutto in questa tornata. Non è un tecnico, è un politico di lunga percorrenza con alle spalle un non irrilevante curriculum istituzionale (è stato presidente della Camera), è un centrista “naturaliter”, un moderato che sarebbe potuto andar bene sia alla cosiddetta sinistra che alla cosiddetta destra. Ma quando ha capito che la sua candidatura stava prendendo consistenza e poteva essere d’intralcio all’ipotesi Mattarella, che era la carta della disperazione, si è fatto da parte, col consueto garbo, invitando i suoi potenziali elettori a non votarlo. Insomma è uno dei pochi che ha dimostrato di avere ancora la testa sulle spalle.
Un discorso a parte merita Silvio Berlusconi. E’ sua la responsabilità di aver proposto la propria candidatura impossibile e quindi anche della rumba che è seguita al suo abbandono. Stupisce che persone politicamente navigate come Salvini e Meloni abbiano accettato di supportare la candidatura di un uomo che, con tutta evidenza, è finito. Berlusconi è stato dato più volte per finito, ma questa volta lo è davvero, non ci saranno supplementari. L’età non glieli permette e nemmeno la salute più che malferma. C’è da chiedersi quale sarà la sorte di quest’uomo che ha sempre inseguito grandi obiettivi ora che l’obiettivo degli obiettivi, il Quirinale, è scomparso all’orizzonte. Dubito molto che si possa accontentare di un tranquillo “viale del tramonto”. Lo shock di una sconfitta senza ritorno è stato per lui fortissimo. Tant’è che dopo il forzato abbandono della sua candidatura è stato ricoverato al San Raffaele per “esami di routine”, ma il fratello Paolo ha rivelato che in quei giorni l’ex Cavaliere ha rischiato la vita.
Sergio Mattarella. Ha accettato la ricandidatura con “grande spirito di sacrificio” come si è ripetutamente detto e scritto in questi giorni. Ma se in un Paese diventare o ridiventare Presidente della Repubblica è “un grande sacrificio” ciò ribadisce che c’è del marcio, e molto, nel “regno di Danimarca”.
Il Fatto Quotidiano, 1 febbraio 2022