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Il cronista del Giornale Stefano Zurlo intervistando Giuliano Pisapia, figlio di Gian Domenico Pisapia un giurista di grande valore, con cui mi onoro di essermi laureato a pieni voti, ma peraltro autore, con le migliori intenzioni, della disastrosa riforma del codice di procedura penale del 1989 (un incrocio fra sistema accusatorio e inquisitorio). Lì Pisapia jr. ha affermato che bisogna andare oltre “la solita litania sulla lentezza dei dibattimenti”. Peccato che questa litania sia “solita” per la semplice ragione che la lentezza dei processi va ad incidere pesantemente su alcune questioni fondamentali: la carcerazione preventiva, la “presunzione di non colpevolezza”, la certezza della pena, la libertà di stampa.

È ovvio che più lunga è la durata dei processi, più lunga può diventare la carcerazione preventiva. Senza arrivare ai casi clamorosi di Giuliano Naria, il presunto terrorista rosso che fece nove anni di carcerazione preventiva per essere poi riconosciuto innocente, oggi le nostre carceri sono zeppe di persone in attesa di giudizio. Questo per gli stracci, gli altri vanno agli “arresti domiciliari”, anche questa una discriminazione sociale inaccettabile motivata dalla considerazione che i “colletti bianchi” soffrirebbero di più il carcere perché non ci sono abituati.

La “presunzione di non colpevolezza” fino a condanna definitiva è un principio fondamentale del diritto. Ma se i processi si allungano all’infinito diventa di fatto una presunzione di impunità perché i processi finiscono inevitabilmente sotto la mannaia della prescrizione o della “improcedibilità” con cui la ministra della giustizia Marta Cartabia, con un gioco direi quasi di parole, ha cercato di mascherare la prescrizione. Teniamo presente che se un imputato è sempre, e giustamente, un presunto innocente, la vittima del reato è però certa e ha quindi più diritto degli altri di avere una giustizia che invece, prescrizione operans, non avrà mai.

La prescrizione poi annulla la certezza della pena che è un altro dei cardini di un buon funzionamento della giustizia e della società stessa. Le pene non devono essere troppo dure né tantomeno “esemplari”, come s’è detto e fatto troppe volte sotto spinte emozionali, ma devono essere certe.

L’abnorme durata dei nostri procedimenti impedisce di tutelare la loro segretezza. Nel codice di Alfredo Rocco (ministro della giustizia durante l’era fascista) le cui norme hanno avuto valore fino al 1988, l’istruttoria era segreta, il dibattimento ovviamente pubblico (nei sistemi totalitari è segreto anche il dibattimento). Ciò a tutela delle persone che durante la fase, per forza di cose incerta e a tentoni delle indagini preliminari, possono essere impigliate in un’inchiesta alla quale sono estranee. Cioè in un sistema ben regolato la polizia giudiziaria e il pubblico ministero portano alla valutazione del Gip il materiale che hanno raccolto. Il Gip scarta i fatti irrilevanti e porta al dibattimento solo quelli che sono utili al processo e così, a parer mio, dovrebbe essere. Ma così non è stato. Perché in questi anni i media hanno potuto violare un segreto istruttorio che di fatto non esiste più. Con conseguenze devastanti. Oggi basta che un personaggio pubblico sia raggiunto da un “avviso di garanzia”, che in teoria dovrebbe essere a sua tutela, perché si scateni il “tritacarne massmediatico” da parte di questa o quella formazione politica e dei media ad essa aggiogati. Ma, d’altro canto, se le istruttorie durano anni, impedire ai media di raccontarle finisce per essere un’inaccettabile mordacchia alla libertà di stampa. Ritorniamo quindi e sempre al problema dell’abnorme lunghezza delle nostre procedure. In Gran Bretagna durante le istruttorie i media forniscono solo le iniziali dell’indagato indicato come “persona informata dei fatti” e non possono fare nemmeno il nome del giudice inquirente ad evitare che costui voglia farsi pubblicità evitando così la canzoncina che da anni è il leitmotiv delle destre italiane per squalificare le indagini. Ma in Gran Bretagna se c’è un imputato detenuto le istruttorie durano dai 28 ai 32 giorni a seconda della diversa composizione del Giurì cioè della diversa gravità del reato. Ma questo da noi è impensabile. In attesa che si metta mano seriamente a una riforma del codice di procedura penale che lo ripulisca degli infiniti ricorsi e controricorsi, esami e controesami e delle leggi cosiddette garantiste con cui è stato inzeppato il codice durante l’era Berlusconi, che in realtà si risolvono in un danno per l’innocente, il cui interesse è essere giudicato il prima possibile, e in un vantaggio per il colpevole il cui interesse è esattamente l’opposto, troviamo ragionevole la mediazione proposta dal procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi che ha inviato una circolare a tutti gli uffici giudiziari raccomandando di limitare al massimo le conferenze stampa e di non indicare come “colpevole” l’indagato. È già qualcosa. Anche se in passato, un passato ormai lontano, era una norma di civiltà che il magistrato si esprimesse solo “per atti e documenti”. Ma quelli erano altri tempi, altri uomini, altro tutto.

Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2022