“La guerra è comune a tutti gli esseri, è la madre di tutte le cose. Alcuni li fa dei, gli altri li fa schiavi o uomini liberi” (Eraclito)
Io non sono pacifista. Lo slogan “meglio rossi che morti” non mi è mai appartenuto. Lasciamo perdere, per il momento, la questione se ci siano guerre giuste su cui si sono affaticati non solo gli ideologi cristiani, da san Tommaso a sant’Agostino, o se la guerra sia comunque e sempre un male come pensano soprattutto gli autori moderni, illuministi, da Rousseau a Voltaire, da Diderot a d’Holbach a Kant. Il fatto è che la guerra, comunque la si voglia considerare, non è solo distruttrice ma anche creatrice. Ha funzioni positive, sia sul terreno politico, collettivo che individuale appagando pulsioni esistenziali profonde. Ed è di queste ultime che qui soprattutto mi occupo. La guerra consente di liberare legittimamente l’aggressività naturale, e vitale, che è in ciascuno di noi. Ha il pregio di ricondurre tutto, a cominciare dai sentimenti, all’essenziale. Ci libera dell’orpello, del superfluo, dell’inutile, ci rende, in ogni senso, più magri. La guerra conferisce un enorme valore alla vita. Il rischio, concreto, vicino, incombente, della morte rende ogni attimo della nostra esistenza, anche il più banale, di un’intensità senza pari. Anche se può sembrare paradossale la guerra è un’occasione irripetibile e inestimabile per imparare ad apprezzare la vita. Ai nostri ragazzi, e non solo a loro, spesso in preda a depressioni e nevrosi, consiglierei un stage in Siria o, oggi, a Kiev. Infine la guerra, dai suoi primordi, è sempre stata sentita come la prova, la prova suprema come scrive Norman Mailer, in cui l’uomo si misura con se stesso, con i propri valori, e svela, a sé e agli altri, la sua vera identità. Racconta Leo Longanesi di individui che in tempo di pace facevano i fenomeni sciogliersi come neve al sole e di impiegatucci a cui non avresti dato un soldo essere all’altezza della situazione.
Quel che ho detto fin qui non vale più da quando la tecnologia, oltre a essersi impossessata delle nostre vite, ha tolto alla guerra ogni epica, ogni estetica e, soprattutto, ogni etica, relegando l’uomo in una posizione marginale, spesso di pura e semplice vittima sacrificale. Il pilota che, poniamo, da Nellis nel Nevada, a diecimila chilometri di distanza, guida un drone armato di missili con cui uccide un centinaio di persone non ha bisogno di alcun coraggio, deve essere armato solo di cinismo. Ci sono poi guerre moderne, e molto attuali, in cui la sproporzione tecnologica fra le forze in campo è tale da far dubitare che siano delle vere guerre. È quella che Edward Luttwak ha chiamato, con felice sintesi, “la guerra post-eroica”. Situazioni di questo genere secondo il polemologo Lewis A. Coser “non si differenziano sostanzialmente dall’attacco dello strangolatore alla sua vittima”. Si esce cioè dal campo della guerra per entrare in quello dell’assassinio. Il combattente che non combatte perde ogni legittimità, quella particolare legittimità che permette in guerra ciò che è assolutamente proibito in tempo di pace: uccidere ed essere, se così si può dire, altrettanto legittimamente uccisi. Se uno solo può colpire e l’altro solo subire siamo fuori dalla guerra, almeno come l’avevamo finora conosciuta. Di questa pasta sono le guerre Nato-americane alla Serbia (1999), all’Iraq (2003), alla Libia (2011). In realtà oggi la guerra esiste ancora, ma la si fa con cattiva coscienza, vergognandosene, tant’è che la si chiama con altri nomi “operazioni di peace keeping”, “operazioni di polizia internazionale”, eccetera. Nemmeno Putin sfugge alla regola tanto che, se non ho capito male il suo russo, ha chiamato l’aggressione all’Ucraina “operazione militare speciale”. La guerra russa all’Ucraina, data la sproporzione delle forze in campo, somiglia più, almeno in buona parte, per ridirla con Coser, all’attacco dello strangolatore alla sua vittima. E se all’Ucraina è andato il consenso dell’intero mondo occidentale, non è solo, e non è tanto, per l’indiscusso coraggio dei combattenti ucraini, ma perché è la prima volta che le televisioni ci hanno fatto vedere gli effetti di una guerra, cosa che non era accaduta per la prima guerra del Golfo (Fabrizio Del Noce ci mostrava, dalla terrazza del miglior albergo di Baghdad, cioè del nemico, cosa in sé già assai curiosa, i traccianti della contraerea e le code luminose dei missili, insomma una sorta di wargame, ma di quello che accadeva sotto non sapevamo nulla) né è accaduta per l’Afghanistan, per la seconda guerra del Golfo, per la Libia. Si è creato così, per l’Ucraina, un voyerismo della guerra che lo scrittore Antonio Scurati non ha esitato a definire, giustamente, “osceno”. Di fatto questo voyerismo televisivo non ha nulla a che fare con un vero appoggio all’Ucraina. Gli occidentali, e in particolare gli europei, sono stati troppo slombati da decenni di pace per avere il coraggio di andare a battersi sul campo come si era fatto nella guerra civile di Spagna cui confluirono combattenti di altri Paesi a favore di una fazione o dell’altra, comunisti/anarchici contro Franco (cosa che non impedì ai comunisti di massacrare i loro alleati anarchici, Omaggio alla Catalogna, Orwell), i fascisti a favore.
Un’altra novità della “guerra post-eroica” è che il nemico non è più uno “justus hostis”, da trattare con le regole dello ius belli (che peraltro non esiste più) ma è sempre un “terrorista” per gli americani o, oggi, un “nazista” per Vladimir Putin. Se il prigioniero nemico non è uno “justus hostis” se ne può fare carne di porco (vedi Guantanámo).
E veniamo alla domanda che abbiamo scartato all’inizio, e cioè se esistano guerre “giuste”. Per me sì. E sono tutte le guerre di indipendenza. Dalle ormai lontane guerre d’indipendenza nostrane, senza le quali non si sarebbe fatta l’Unità d’Italia, alla guerra dei talebani afgani agli occupanti Nato-americani e, oggi, degli ucraini contro l’invasore russo. La guerra è la madre di tutte le cose. Alcuni li fa dei, gli altri li fa schiavi o uomini liberi.
Il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2022