Nella semifinale di Champions il Manchester City è riuscito a farsi buttar fuori da un mediocre Real Madrid. La responsabilità è dell’allenatore Guardiola. Pep Guardiola è considerato un fenomeno perché ha vinto due Champions. Ma le ha vinte con il Barcellona di Piqué, Busquets, Xavi, Iniesta e, come ciliegina sulla torta, Lionel Messi. Quel Barcellona poteva guidarlo anche Topolino. Purtroppo Guardiola non solo è considerato un fenomeno, ma lui stesso si ritiene tale e vuole sempre dimostrare che non è la sua squadra a vincere, ma lui a farla vincere.
Ricapitoliamo. A Manchester il City aveva vinto 4 a 3. Si presentava quindi nel ritorno al Bernabeu con un gol di vantaggio. Al 27’ del secondo tempo le squadre erano sullo 0 a 0 e quindi il Manchester qualificato. Bastava palleggiare, come il City sa fare, per una ventina di minuti, ed era fatta. Che cosa fa il genio Guardiola? Tira fuori Kevin De Bruyne, il capitano e l’anima della squadra. E’ vero che De Bruyne non era in una delle sue giornate migliori, anche se un passaggio filtrante l’aveva fatto e subito dopo aveva costretto Curtois al miracolo, ma De Bruyne è uno di quei giocatori che non si fanno uscire mai, come Robert Lewandowski nel Bayern o Benzema nel Real. Sulle prime la mossa di Guardiola sembra premiarlo, un minuto dopo il subentrato Gundogan, anch’egli un fuoriclasse, imbecca Mahrez, fino ad allora nullo, che segna. Partita finita? Sembrerebbe di sì perché il Real deve segnare due gol ed è costretto a scoprirsi e a giocare con quattro attaccanti. Ma Guardiola non vuole solo vincere, vuole stravincere. Butta in campo “l’oggetto misterioso” Grealish, costato chissà perché 50 milioni, che riesce a mangiarsi due gol solo davanti al portiere. Si sa come vanno le cose nel calcio. Scampato il pericolo l’inerzia della partita si volge a favore del Real che segna due gol proprio alla fine del secondo tempo regolamentare. Si va ai supplementari. C’è un rigore, sacrosanto, per il Madrid, tira e segna Benzema che non è mai entrato in partita ma che Ancelotti si è ben guardato dal togliere.
La finale del 28 maggio allo Stade de France sarà quindi Liverpool, allenato dal più saggio e assennato Klopp, Real Madrid, allenato dall’altrettanto assennato Ancelotti. Ci sarà lo stadio colmo, il solito, glorioso, inno della Champions e delle squadre, altre musiche perché gli stadi di calcio sembrano avvicinarsi sempre di più alle discoteche (irritantissima è la profusione di musica che si ha nelle riprese televisive, assordante fino a coprire la voce dello speaker quando comunica i nomi dei giocatori delle due formazioni).
Il 28 maggio sarà quindi il trionfo del calcio? Non bisogna farsi ingannare. Il calcio, anche se lo non sa o finge di non saperlo, se non è ancora morto è però moribondo. Per ingordigia di denaro. Tutti vogliono spartirsi la torta. In particolare, ma certo non solo, i network che lo trasmettono. Sky si è tenuta la Champions ma ha ceduto il Campionato italiano a DAZN, che si vede molto male, tenendosi però tre partite a sorpresa. Una partita di Champions, quella considerata più interessante, è andata invece ad Amazon. Risultato: fra tutt’e tre hanno perduto otto milioni di telespettatori, non solo, e non tanto, perché uno non vuole spendere per tre abbonamenti, ma perché il tifoso è disorientato. Ci vogliono gli algoritmi per sapere quando e dove si può seguire la squadra del cuore o una partita che ti interessa particolarmente.
Quest’anno il Campionato del mondo si terrà in novembre a Doha nel Qatar dove non hanno mai visto un pallone. Ma gli Emirati hanno i soldi e il calcio (e i suoi protagonisti, dirigenti, procuratori, giocatori) è da tempo che segue solo i soldi. I giocatori, soprattutto quelli super pagati, cambiano squadra quasi ogni anno a seconda degli ingaggi. I procuratori, che sono al centro di queste trame, guadagnano più dei giocatori. Le maglie tradizionali cambiano colore a seconda degli sponsor. La legge Bosman ha distrutto i vivai. E questo è uno dei motivi per cui nelle squadre italiane (ma il discorso vale per tutte le squadre europee) in A, in B e persino in C, si vedono quasi solo giocatori stranieri. Ma la cosa riguarda anche le proprietà. Quella dell’Inter è cinese, quella del Milan è un Fondo americano, quella della Roma è pur essa americana, il presidente del Paris Saint Germaine, che continua a spendere centinaia di milioni senza cavare un ragno dal buco, è Nasser Al-Khelaïfi, Qatar.
La vecchia Coppa dei Campioni si giocava a eliminazione diretta che dava anche qualche possibilità alle squadre minori, la Champions a gironi, quindi più partite, più soldi, più infortuni fra i giocatori sottoposti a uno stress continuo.
Per esigenze televisive, e quindi per una questione ancora di quattrini, le partite non si giocano più nel rituale santo giorno di domenica, e nemmeno allo stesso orario. Il venerdì c’è un anticipo di B, il sabato la B e due anticipi di A, la domenica ma ad orari diversi, da mezzogiorno alle 20.45, il grosso delle partite di A, il lunedì il posticipo di A e, se poi si è nel periodo delle competizioni europee, il martedì c’è la Champions, il mercoledì ancora Champions, il giovedì l’Europa League. Una overdose insostenibile. Per non farci mancar nulla si è inventata una Conference Cup che coinvolge le squadre che si sono piazzate settima e ottava nel campionato.
Dal 1987, con l’introduzione del “terzo straniero”, il calcio da stadio, cioè il vero calcio, ha perso circa il 40 per cento degli spettatori.
Questi qui credono che il calcio sia solo spettacolo e business. Ma il calcio è (era) qualcosa di molto più profondo. Per un secolo il calcio è stato una grande festa nazional-popolare, interclassista, che si faceva la domenica, in sostituzione di altre cadute in disuso. Attorno alla partita si coagulavano elementi rituali, mitici, simbolici, sentimentali, emotivi che, al di là del gioco e dello spettacolo, costituivano la vera ragione della passione per il calcio e della sua fortuna: il riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nei suoi colori, nelle sue maglie, in certi giocatori simbolo, nel suo carattere la cui continuità era assicurata dal passaggio di testimone, di generazione in generazione, fra gli “anziani” e i giovani del vivaio e della Primavera. Il business ha emarginato tutti questi elementi a favore di uno spettacolo asettico, buono per tutte le bocche, in particolare per quelle del consumatore televisivo. Oggi ogni processo di identificazione è diventato impossibile. Nel frattempo la politica degli abbonamenti e dei prezzi ha tolto al calcio da stadio il suo connotato interclassista: la suburra va dietro le porte, gli altri, a seconda del loro status, nelle diverse tribune. La Festa, il rito domenicale, quello della vigilia, l’identificazione, il simbolismo, il ritrovarsi in modo comunitario, cioè i contenuti sentimentali e sociali del calcio, quanto in esso c’è di concretamente umano, sono stati sacrificati all’astrazione-denaro. Al loro posto resta la vuota forma della partita che domani potrebbe anche diventare, come tutto il resto, virtuale. Una play station insomma.
Secondo gli addetti ai lavori, inconsapevoli aspiranti suicidi, tutto questo è molto razionale , molto logico ed “economically correct”. Ad ogni buon conto il calcio va a ridursi a un qualunque spettacolo televisivo da fruirsi solipsisticamente a casa. Perdendo tutti i suoi connotati specifici susciterà un interesse sempre più generico, vago, intercambiabile che, come tale, prima o poi svanirà.
Così, a furia di spremerla, gli apprendisti stregoni avranno ucciso la “gallina dalle uova d’oro”, realizzando, è il caso di dirlo, l’ennesimo autogol.
Il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2022