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Il Novecento è stato il “secolo americano”. Il Duemila apparterrà ad altri. Anche se gli Stati Uniti non si rassegnano a perdere la loro primazia mondiale e sono perennemente in allerta contro chiunque tenti di intaccarla.

Negli anni Cinquanta il mito americano era imperante nell’Europa occidentale e in particolare in Italia dove scontavamo anche un forte complesso di inferiorità nei confronti dei “liberatori”. Nel 1956 Renato Carosone cantava: “Tu vuò fà l'americano, 'mericano, 'mericano… Tu vuoi vivere alla moda, ma se bevi whisky and soda po' te siente 'e disturbà. Tu abball' o' rocchenroll, tu giochi a baisiboll, ma si’ nato in Italy. … si tu lle parle miezo americano… Quanno se fa ll'ammore sott' 'a luna, comme te vene 'ncapa 'e di' ‘I love you’?”. Poi vennero i Dik Dik con “Ti sogno California”, con meno inferiority complex ma la stessa ammirazione per il mondo al di là dell’oceano. Ma “Ti sogno California” è del 1965 e da allora molta, moltissima acqua è passata sotto i ponti. Adesso credo che siano pochi i ragazzi italiani che sognano l’America. Io non capisco come ancora oggi l’America possa passare per un faro delle democrazie liberali contro cui, abbacinati, andiamo a sbattere cocciutamente come le falene sbattono contro ogni fonte di luce restandone poi tramortite. E’ un Paese violentissimo. Di una violenza che origina molto spesso non da ragioni politiche (ci sono ovviamente anche quelle, la questione afro, i muri eretti  contro le migrazioni dal Messico) ma da un malessere profondo che è individuale più che collettivo. Le notizie che ci giungono dall’America delle stragi in apparenza senza alcun senso, compiute per lo più da giovanissimi, sono solo una parte di quelle che vengono effettivamente commesse. Mi scrive il mio amico americano G.P. Biondo che vive proprio in California, la regione più ricca e nello stesso tempo più povera del mondo: “Caro Fini, come lei sa da noi ci si spara giornalmente ma solo le sparatorie che fanno ‘comodo’ vengono pubblicizzate dai media. Durante il Memorial Day Weekend abbiamo avuto 14 mass shooting e a malapena se ne è parlato. La maggioranza di queste sparatorie ovvero l'80 per cento vengono compiute da giovani dai 25 anni in giù. Sembra che i giovani si sentano senza speranza.”. Un americano su 5 sviluppa problemi psichici annualmente, uno su 20  ha seri problemi di salute mentale. Ogni anno, nella fascia di età fra i 6 e i 17 anni, uno su 6 sviluppa problemi psicologici. Il suicidio è la seconda causa di morte delle persone comprese tra i 10 e i 34 anni. Dati del National  Alliance on Mental Illness riferiti al 2020. Peraltro, con tutta evidenza, il problema non riguarda solo le giovani generazioni se, come abbiamo riferito in un recente articolo, 564 americani su mille fanno uso abituale di psicofarmaci (di psicofarmaci, non di droga, quello è un problema aggiuntivo e a parte). Questo dato, che ho inserito ne La ragione aveva torto?, è più vecchio, data dal 1983. Ma tutto autorizza a pensare, confrontandolo con quelli del 2020, che questa percentuale non sia diminuita, anzi è molto probabile che sia aumentata.

Non voglio con ciò dire che tutto negli States sia da buttare. Gli americani sono coerenti con i propri principi, col loro mito “dall’ago al milione”, per cui chiunque, sia pure delle più umili origini, può diventare miliardario. Poiché il loro mito è il business se tu presenti un progetto che procura denaro non hai bisogno, in linea di massima, di avere alle spalle gruppi potenti e lobbies di ogni genere. In fondo la storia di Steve Jobs, di Bill Gates, di Mark Zuckerberg è questa. Da noi invece prevale il familismo, essere figlio di qualcuno, che spesso sfocia nel rapporto puramente mafioso con l’appoggio, spesse volte, dei partiti che sono a loro volta delle vere e proprie mafie legalizzate. E questa è la tabe peggiore, e gravida di pesanti conseguenze, della società italiana contemporanea. Per contro il mito egalitario americano si rovescia, paradossalmente, nel suo contrario: per uno che sfonda, decine di milioni di persone sono lasciate agli stracci. Negli Stati Uniti non esiste un sistema sanitario pubblico, a Cuba sì.

Insomma l’America di oggi non mi pare proprio un Paese da imitare. Inoltre sul piano internazionale gli Stati Uniti e la Nato, che sono poi la stessa cosa, ci hanno trascinato in guerre disastrose che a volte, nonostante la nostra super superiorità militare, siamo riusciti addirittura a perdere nel modo più ignominioso come quella contro i Talebani,  e in altre, aggressione alla Serbia nel 1999, all’Iraq (2003), alla Somalia degli Shebab (2006/2007), alla Libia di Gheddafi (2011), le cui conseguenze devastanti si sono riversate sull’Europa e, per quello che riguarda la Libia, soprattutto sull’Italia le cui coste sono esposte alle continue migrazioni.

Sono tutte buone ragioni per lasciarci alle spalle quell’atlantismo a cui siamo incatenati da più di tre quarti di secolo. Non si tratta, come nota acutamente Giulio Tremonti, una delle più belle teste del Popolo delle Libertà che non per nulla ha lasciato, di farsi per ciò cinesi (Le debolezze non viste e la vera forza della Cina, Corriere della Sera, 30/05). Non si tratta cioè di passare da un padrone a un altro, si tratta di dare all’Europa una fisionomia politica e anche militare più precisa e più forte. A differenza di Draghi sdraiato perennemente come una sogliola ai piedi di Joe Biden, lo ha capito persino Berlusconi, che nel discorso preparato per il congresso del Partito Popolare Europeo di pochi giorni fa dichiarava: “Nonostante il debito inestinguibile di gratitudine e lealtà verso gli Stati Uniti bisogna prendere consapevolezza del fatto che oggi Washington ha una priorità che si chiama Cina. Insomma l’unità politica e militare dell’Europa diventa una necessità”.

Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2022