Il prossimo novembre compirò settantanove anni. Sono nato dunque alla fine del 1943 e ho attraversato tutta la storia dell’Italia repubblicana.
I primi anni del Dopoguerra, fino al boom economico compreso, sono stati, com’è ovvio, i migliori. Uscivamo da una crisi materiale e morale devastante, dopo aver perso una guerra. Ma “krìsis” vuol dire anche opportunità e gli italiani, cui non è mai mancato lo spirito di iniziativa, la colsero. È quella che è stata chiamata “la ricostruzione”. L’imprenditoria italiana si mise a volare, grazie anche agli aiuti americani. Però non fu solo lo slancio della ricostruzione a rendere “belli” gli anni Cinquanta. Essere rimasti vivi dopo i bombardamenti Alleati e i rastrellamenti tedeschi bastava a renderci felici. La mia generazione, diciamo dei ragazzi degli anni Sessanta, ha avuto un rapporto molto diverso con gli americani di quella che ci aveva immediatamente preceduto. Per i nostri fratelli di dieci anni più vecchi gli americani erano un mito non tanto perché li avessero “liberati”, ma perché i soldati Usa davano loro caramelle e cioccolato e, a volte, delle ambitissime Am-lire che in quei giorni convulsi avevano sostituito la valuta nazionale. A noi invece gli americani erano indifferenti, non li amavamo ma nemmeno li odiavamo. Eravamo intrisi, almeno noi giovani borghesi, dell’esistenzialismo francese, di Camus, di Sartre, di Merleau-Ponty. Anche se l’esistenzialismo pendeva verso il comunismo sovietico, prima della clamorosa denuncia di Albert Camus dei lager che peraltro era stata preceduta, ma inascoltata da André Gide negli anni Trenta. Erano i famosi “compagni di strada”. L’esistenzialismo avrà un revival a metà degli anni Settanta col movimento hippy, con la libertà personale (“i capelloni”), sessuale e il femminismo non portato ancora agli estremismi del metoo.
Eravamo poveri negli anni del dopoguerra, nei Cinquanta, ma è nella povertà che si è solidali. I ricchi possono fare beneficienza, ma questa non è solidarietà è solo per salvarsi la coscienza.
Poi all’inizio degli anni Sessanta arrivò il “boom economico”. Lo affrontammo con una certa naïveté priva di volgarità. Era bello dopo aver stretto per anni la cinghia (la fame no, la fame vera io non l’ho mai vista in Italia) potersi permettere certi beni che avevamo considerato un lusso, come l’automobile. La Fiat aveva fatto il proprio lavoro e l’Italia cominciava a essere un paese moderno almeno dal punto di vista autostradale (“da casello a casello”, “c’ho giù la Giulia”, chi avendo la mia età non ricorda queste frasi o La voglia matta con un Ugo Tognazzi quarantenne, abbonato naturalmente al Touring Club, che perde la testa per l’implume Catherine Spaak?). Quest’incanto si chiude, volendogli dare una data, nel 1967. Quando i figli di una borghesia ipocrita proclamarono di voler rovesciare la borghesia, una cosa che avrebbe fatto rivoltare nella tomba il vecchio Marx. Questi ragazzi andavano in giro urlando slogan raccapriccianti: “uccidere un fascista non è un reato”. Qualche ragazzo “fascista”, o presunto tale, è rimasto su una sedia a rotelle. Qualcun altro ci ha lasciato la vita. La Democrazia Cristiana, com’era suo costume, lasciò fare sperando, come sempre, che il fenomeno si sarebbe esaurito da solo. Da noi invece, a differenza che in Francia o in Germania, è durato 10 anni, facendo il maggior numero di danni possibile (assassinio di Walter Tobagi e di Casalegno). Del resto la DC aveva capito perfettamente che quei giovani pseudorivoluzionari erano politicamente innocui. L’aspirazione vera dei loro leader era conquistare le prime pagine del Corriere e possibilmente la direzione. Come poi è puntualmente avvenuto. I soli rispettabili, a parer mio, di quella generazione sono stati i primi “brigatisti rossi” (Curcio and company) che credevano a quello che facevano e che mettevano a rischio la pelle altrui a prezzo però anche della propria. Ma cavalcavano una ideologia morente, il marxismo-leninismo, che si sarebbe spenta pochi anni dopo col collasso dell’URSS.
Seguirono poi gli anni Ottanta. Gli anni della “Milano da bere”. A parte il fatto che se la bevevano solo i socialisti, è in quegli anni che ha inizio la corruzione sistematica. Non c’era appalto senza tangente politica. I più arroganti in questa spoliazione, materiale e morale, della società furono i socialisti. Il socialismo è la traduzione laica del pensiero cristiano chinato sugli umiliati e offesi. Ed è ben vero che negli anni Ottanta costoro non potevano più essere identificati con la classe operaia che stava disfacendosi a favore del terziario e dell’economia finanziaria, ma non potevano nemmeno essere identificati con i visagist, i coiffeur, gli stilisti, le dame di corte (“la congrega dei nani e delle ballerine” come la chiamò il compagno Rino Formica). La corruzione riguardava tutti i partiti ma i socialisti, a differenza della più prudente DC e del maggiormente controllato PCI, la agirono con particolare violenza e volgarità arrivando a “torre le donne altrui” per piazzarle in questo o quel programma televisivo. Fu anche per questo che quando arrivò la stagione di Mani pulite, nei primi anni Novanta, i socialisti furono il principale bersaglio di una collera popolare che arrivò ai limiti, sempre inaccettabili, del linciaggio.
Mani pulite veniva da lontano. Era una delle conseguenze del collasso dell’Unione Sovietica del 1989. Scomparso per il momento l’“orso russo”, l’incubo di sempre, come vediamo ancor oggi, del mondo occidentale, non era più necessario appoggiare quello che in Italia era il suo contrapposto storico, la DC. Il “turatevi il naso” di Montanelli non valeva più. Quei voti si dispersero in varie direzioni, ma si concentrarono soprattutto sulla Lega di Umberto Bossi, un movimento anti-partitocratico di nuovo conio che sulle prime era stato preso poco sul serio, ma che adesso al Nord prendeva il 40% dei voti. Dopo una quindicina d’anni di “compromesso storico” che significava che il Partito comunista era stato associato al potere, nasceva ora in Italia una vera forza di opposizione. Ciò liberò le mani ai Magistrati che prima se osavano indagare sulla corruzione della classe dirigente venivano spediti a un semiconfino, cioè in Procure marginali. E ci fu quindi la sequela di arresti di uomini politici e di imprenditori i quali, gli imprenditori intendo, erano spesso i primi ad autodenunciarsi perché il taglieggiamento pesava, oltre che sui cittadini, anche sulle loro spalle. Del resto è proprio negli anni precedenti Mani pulite che, in virtù del voto di scambio, abbiamo accumulato quell’enorme debito pubblico che ancora oggi ci pesa addosso rendendo difficili i nostri rapporti con l’Ue.
Mani pulite è stato un possibile momento di svolta della vita italiana. Dopo anni di impunità anche la classe dirigente, politica e imprenditoriale, veniva richiamata al rispetto di quelle leggi che tutti i cittadini sono chiamati ad osservare. Mani pulite non fu solo una rivolta popolare contro il prepotere dei partiti, ebbe anche un’origine economica perché il Paese non poteva più sopportare il peso di quel finanziamento illecito di cui i rivoli, diciamo pure i fiumi, finivano molto spesso nelle tasche personali dei corruttori. Sulle prime la stampa nazionale appoggiò con entusiasmo, finanche il sospetto, l’opera dei Magistrati, soprattutto quelli milanesi, perché aveva la coda di paglia essendo stata compartecipe dell’ancien regime lucrandone i relativi vantaggi. In un famoso discorso alla Camera del 21 dicembre 1994, sfiduciando e facendo cadere il governo Berlusconi con cui si era provvisoriamente alleato, Umberto Bossi concludeva il suo intervento con queste parole: “Oggi finisce la Prima Repubblica”. Si illudeva. A cadere sarebbe stato lui con tutto l’impianto di Mani pulite.
Volendo sintetizzare molto i protagonisti di Mani pulite furono quattro: Antonio Di Pietro, come punta di lancia di quelle inchieste, Umberto Bossi, il direttore de L’Indipendente Vittorio Feltri che col suo giornale, in modo spesso sgangherato ed eccessivamente violento, appoggiò quelle inchieste, e Gianfranco Funari che rappresentava la voce popolare di quel momento.
La reazione a questo “sgarro” alla partitocrazia non si fece attendere. Bossi fu inglobato, Feltri comprato, Di Pietro infamato in tutti i modi, Gianfranco Funari emarginato.
Per sapere quello che è successo dopo non è necessario avere settantanove anni. Delegittimata la Magistratura la corruzione della classe dirigente è scesa giù per li rami coinvolgendo anche i cittadini e la stessa Magistratura all’interno della quale, salvo lodevoli e isolate eccezioni, si svolgono lotte di potere non diverse da quelle che riguardano i partiti.
Il 25 settembre ci saranno le elezioni. Al nuovo Presidente del Consiglio, probabilmente Giorgia Meloni, spetterà il difficile compito di ridare agli italiani una fiducia nelle Istituzioni che, come dimostra la montante astensione, hanno da tempo abbondantemente perduto.
Il Fatto Quotidiano, 2 agosto 2022