0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Inserire Umberto Bossi fra le “meteore” della vita politica italiana potrebbe sembrare azzardato. Perché Bossi in politica c’è da più di mezzo secolo e in qualche modo vi resta sia pure come pallido e malato fantasma di un tempo.

E’ l’epopea di Bossi a essere stata breve, diciamo circa dal 1989 al 1994. Quando comparve per la prima volta sulla scena politica nazionale, nel 1989, quale unico eletto di un misterioso movimento, la Lega Lombarda, non fu preso minimamente sul serio. Lo stesso appellativo di “senatur” che gli fu appioppato dice che la classe politica italiana lo considerava, per il modo di porgersi, di vestire (la famosa canotta bianca in Sardegna al fianco di un irreprensibile Berlusconi), di comportarsi, una semplice stranezza o, nel migliore dei casi, un caso patetico. Ma cosa voleva costui con le sue idee stravaganti quanto confuse?

Eppure le idee dell’“Umberto” non erano né stravaganti né confuse. Le contestatissime “macroregioni” (“le tre italiette”, Ugo Intini fra i tantissimi), erano la semplice constatazione di un dato di fatto: che Nord, Centro, Sud sono regioni, socialmente, economicamente, culturalmente, psicologicamente e anche climaticamente diverse. Questa constatazione, che ci sarebbe stata molto utile in epoca di pandemia, si portava dietro, fra gli altri, il concetto, anch’esso contestatissimo, delle “gabbie salariali”. E’ del tutto evidente che un impiegato nella Pubblica amministrazione al Nord, che prende lo stesso salario di un suo corrispondente al Sud, è più danneggiato di un meridionale perché a Milano, a Como, a Treviso, la vita costa tre volte tanto.  

Ma la visione di Bossi, coadiuvato da Gianfranco Miglio, andava molto più lontano, anche utopisticamente troppo lontano come quella, per restare al giorno d’oggi, di Gian Roberto Casaleggio. Postulava che in un’Europa politicamente unita i punti di riferimento periferici non sarebbero più stati gli Stati nazionali, ma appunto “macroregioni” più coese dal punto di vista economico, sociale, linguistico (Tirolo e Alto Adige per esempio o Riviera di Ponente e Provenza per farne un altro). Idea utopica, perché l’unità politica d’Europa era molto di là da venire tant’è che non si è realizzata ancora oggi.

Bossi si era anche inventato dei miti fondativi (“il Dio Po”, la Padania). Poveri miti, ma comunque miti in un Italia partitocratica completamente priva di immaginazione e quindi di ideali.

La Lega Lombarda cominciò a essere presa sul serio quando si vide che al Nord prendeva il 40 per cento dei voti e che quindi, per usare il linguaggio dello stesso Bossi, c’era un “idem sentire”. Allora ebbe inizio da parte della burocrazia partitocratica una campagna di denigrazione e di violenza quale nemmeno le Brigate Rosse avevano conosciuto. Qualcuno ricorderà, forse, l’irruzione della Digos nella sede della Lega, partito politico rappresentato in Parlamento, caso unico nella storia dell’Italia repubblicana. E ricorderà, forse, la fotografia di Roberto Maroni steso a terra, privo di conoscenza, cui Bossi sorregge il capo.

La Lega di Bossi, a differenza di quella di Salvini, non era razzista. La mitica “Padania” era di chi ci vive e ci lavora senza andare a fare controlli del sangue sulle sue origini. Naturalmente i cronisti andavano nelle più profonde valli bergamasche per farsi dire qualcosa di antimeridionale.

Ho conosciuto molto bene Umberto Bossi. Era un uomo semplice ma nient’affatto rozzo. Basta andare a rileggere il discorso alla Camera del 21 dicembre 1994 in cui fece cadere il primo governo Berlusconi: non c’è una sbavatura né istituzionale, né logica, né, tantomeno, grammaticale.

A Bossi, pur al massimo del suo successo, piaceva la vita semplice, anche se non era un uomo semplice. Non fa parte della leggenda il fatto che uno dei suoi maggiori piaceri fosse mangiarsi una pizza non in luoghi lussuosi ma nel primo posto raggiungibile. Gli mancava totalmente la spocchia dell’uomo politico. Quante volte Vimercati e io, a cena la notte, gli telefonavamo dicendogli “Siamo qui, ci raggiungi?” e lui, se non aveva altri impegni che lo opprimevano, arrivava dopo una mezz’oretta.

Una volta mi telefonò per chiedermi se ero disposto a dirigere L’Indipendente. “Be’, vieni a casa mia e ne parliamo”. Questo quando qualsiasi uomo politico di mezza e di mezzissima tacca, per avere un incontro con un qualsiasi boss, ti fa passare per mille intermediari. Quando fu a casa mia, seduto sull’ormai mitico divano rosso, forse intimidito dai tanti libri, indicando un alto scaffale disse “Quella è La ragione aveva torto”. “Sì Umberto, è proprio la Ragione” anche se non era vero. La grande capacità di Bossi era di assimilare tutto ciò che vedeva, ascoltava e anche quel poco che leggeva per poi usarlo ai propri fini. Che, secondo me, è il vero segno dell’intelligenza.

Umberto Bossi era un uomo di passione e gli uomini di passione ci lasciano quasi sempre la pelle, o quasi, prima degli altri. Alcuni esempi, anche recenti, lo confermano.

Il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2022