“In un mondo dove il male è di casa e ha vinto sempre/
dove regna il capitale, oggi più spietatamente ”, Sancho Panza in Don Chisciotte, Francesco Guccini.
Ricevendo in Vaticano il capo di Confindustria Carlo Bonomi Papa Francesco ha ricordato che il predecessore dell’imprenditore è il mercante. Ma si è dimenticato, diplomaticamente, che al Tempio Cristo arronzò duramente i mercanti e concluse l’happening prendendoli a frustate: “voi fate della Casa di Dio un luogo di ladri e di bari”.
E’ più o meno fra il Trecento e il Quattrocento che con i mercanti, divenuti una forte classe sociale, ha inizio la” lunga marcia” che porterà all’odierno capitalismo. Prima i mercanti, in tutte le culture, erano considerati l’ultimo gradino della società, solo poco al di sopra degli schiavi. In Giappone il samurai non solo non può maneggiare denaro, cosa disprezzatissima, ma nemmeno pensare in termini di denaro.
Francesco di Marco Datini, il famoso mercante di Prato, per salvarsi l’anima metteva in cima ai suoi precisissimi rendiconti la formula “ in nome di Dio e del denaro”.
Partita da Firenze la lunga marcia del denaro arriverà nel bobbiese, poi nelle Fiandre. Di pari passo con l’espansione della classe dei mercanti va quella delle banche. In origine, con l’eccezione dei due secoli del cosiddetto “capitalismo antico” in Grecia e in Roma che peraltro era molto lontano da quello moderno, le banche erano semplici istituti di deposito, cioè si faceva custodir loro i soldi per premunirsi dai furti. In seguito, con gli inizi del capitalismo moderno, le banche cominciano a investire i quattrini dei depositanti facendo ricadere una buona parte dei rischi d’impresa sui correntisti, cioè sui risparmiatori, i fessi istituzionali del gran gioco del denaro che non hanno capito che il denaro va mobilitato il più possibile e non tenuto fermo per essere impallinato. Poiché a ogni credito corrisponde un debito e come scrive Vittorio Mathieu in Filosofia del denaro : “ i debiti alla lunga non vengono onorati”. Non per nulla i ricchi che di queste cose se ne intendono hanno più debiti che crediti mentre l’uomo comune è obbligato a tenersi stretto il suo risparmio in previsione di qualche accidente, insomma per non vedersi messo sul lastrico da un giorno all’altro.
Le banche sono usuraie. Lo ha detto a chiare lettere la scuola di Tommaso D’Aquino e dei suoi seguaci, Alberto Magno, Nicola Oresme, Giovanni Buridano, Gabriel Biel, Molina, De Lugo. Il tomismo ha condotto una lunga, generosa e a volte vincente (perché la Chiesa aveva presa sulle istituzioni pubbliche) battaglia non solo contro l’usura ma contro l’interesse, col sottile argomento che “il tempo è di Dio e non può essere oggetto di mercato”. Inoltre il tomismo si è affannato a cercare il “giusto prezzo”, ma il “giusto prezzo” non poteva che essere determinato dall’incontro della domanda e dell’offerta. Nell’Africa Nera si è cercato di sfuggire a questo meccanismo attraverso il baratto. Ma con l’avvento del colonialismo questo sistema fu sfondato. I colonizzatori misero una tassa su ogni capanna per cui l’agricoltore doveva necessariamente cercare un surplus per onorare questa tassa. Canta un poeta africano: “com’erano belli i tempi in cui se io avevo pepe e tu sale, io ti davo il mio pepe e tu il tuo sale” senza stare a guardare se uno valesse più dell’altro. E’ in questo modo che abbiamo assassinato l’economia e insieme ad essa la cultura africana. I risultati si vedono proprio oggi. Ai primi del Novecento l’Africa Nera era alimentarmente autosufficiente, lo era in buona sostanza, al novantotto% nel 1968. Cosa è successo nel frattempo? Poiché il modello di sviluppo che chiamiamo occidentale, basato sulle crescite esponenziali che esistono in matematica (tu puoi sempre aggiungere un numero) ma non in natura questo modello è alla perenne ricerca di mercati . E quindi anche l’Africa, per quanto povera ma ricca di abitanti diventava un mercato appetibile e necessario. Da qui il passaggio alla fame nuda e cruda è stato breve quanto inevitabile. Di qui anche le migrazioni, soprattutto verso l’Europa ,che tanto ci spaventano. Le navi esistevano anche negli anni Sessanta del secolo scorso, ma non si erano mai visti neri africani affrontare il pericolosissimo deserto della Libia, divenuto tale dopo il brutale assassinio del colonnello Muhammar Gheddafi, pagare taglie agli scafisti che a loro volta le pagano all’Isis, per poter lasciare quelle coste e affrontare su barconi periclitanti, destinati spesso al naufragio, il mar Mediterraneo.
La globalizzazione ha esasperato tutti i tratti negativi del neocapitalismo.
Nei decenni si assiste a una sempre maggior finanziarizzazione del sistema, oggi la maggiore potenza non è nelle mani degli Usa o della Cina ma del mercato, questo mostro anonimo senza identità. In fondo un dittatore si può sempre sperare di abbatterlo con i nostri fucilini a tappo, mentre non si può colpire il cuore del mercato semplicemente perché non c’è.
Il Fatto Quotidiano, 26 01 2023