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La Festa del 25 Aprile è alle nostre spalle. Finalmente. Non se ne poteva più. Lo ha ammesso indirettamente persino il conduttore Luigi Casillo, in genere “timorato di dio” e soprattutto del Governo del Tg serale di Sky, sempre più appiattita sui luoghi comuni del momento, stufo di dover dedicare ogni santo giorno quasi tutto il suo telegiornale alle sepolcrali polemiche fascismo/antifascismo.

La grancassa, il frastuono, la retorica, l’eccesso, in qualsiasi cosa, hanno quasi sempre, per non dir sempre, effetti paradossi come certe medicine usate fuorimisura. Se tu ogni giorno, ogni ora, devi dichiarare di essere “antifascista“, e non ti basta nemmeno affermare come ha scritto sul Corriere la brava Giorgia Meloni che la festa del 25 aprile è “la celebrazione della nostra ritrovata libertà”, è chiaro che per un contraccolpo psicologico elementare ti viene voglia di dirti “fascista” anche se non lo sei e non lo sei mai stato (il movimento punk nacque a Berlino contro l’imposizione del marketing di essere tutti belli e perfetti). In ogni caso una democrazia veramente liberale dovrebbe riconoscere il diritto di essere fascisti.  In una democrazia veramente liberale ogni opinione, per quanto possa apparire aberrante allo Zeitgeist, dovrebbe avere diritto di cittadinanza, il solo discrimine è che non si faccia valere con la violenza. E questo limite vale sia per le espressioni di pensiero fasciste che per quelle antifasciste. Un liberale che pretenda che tutti siano liberali non è un liberale, è un fascista.

La Festa del 25 Aprile si basa su un equivoco, non so quanto innocente, e cioè si vuole credere e far credere che, grazie alla lotta partigiana, siamo stati noi italiani a riscattarci in libertà con le nostre mani. Non è così. A liberarci sono stati gli americani, gli inglesi e persino i razzisti sudafricani. Se si va al commovente Cemetery war del Commonwealth che sta alle porte di Milano, fra quelle lapidi bianche, tutte uguali, si leggono i nomi, oltre che degli inglesi, di ragazzi sudafricani o neozelandesi di 20 o 22 o 24 anni venuti a morire qui da noi, in una terra lontanissima dalla loro, per la libertà d’Europa. 

La Liberazione fu il riscatto morale di quelle decine di migliaia di uomini e donne coraggiosi e generosi (ma, col vento che tira, avrei dovuto dire “donne e uomini”) che la Resistenza la fecero davvero, pagando di persona, non del popolo italiano. Non della stragrande maggioranza del nostro popolo che da fascista qual era stato anche con entusiasmo (gli “anni del consenso” non li ho inventati io ma sono documentati storicamente) divenne in un sol giorno tutta antifascista. Arturo Toffanelli mi ha raccontato che il 25 aprile tornando in treno da Torino vedeva sui binari innumerevoli cerchietti che il sole illuminava. Erano i distintivi del PNF di cui gli italiani si stavano frettolosamente liberando. Volevano cancellare il segno di una colpa o di quella che credevano fosse stata una colpa che avrebbe potuto avere per loro, gli ignavi, gravi conseguenze. La mia adolescenza negli anni Cinquanta è stata solcata da ragazzi poco più grandi di me che non potendo affermare decentemente, per l’età, di aver partecipato alla guerra partigiana dicevano che erano stati perlomeno “staffette partigiane”. Io che alla fine della guerra avevo due anni non potevo sostenere nemmeno questo e, nella mia ingenuità, mi chiedevo: ma quanti messaggi si scambiavano questi partigiani?

La Resistenza è stata, come dicevo, il riscatto morale di quelli che la fecero sul serio e non a cose fatte, ma dal punto di vista militare la lotta partigiana è stata un fenomeno marginale in quella grande e tragica epopea che fu la seconda guerra mondiale. E’ vero che i francesi sono andati anche oltre e pur avendo fatto una Resistenza anche minore della nostra (nella Francia del nord sotto occupazione tedesca c’era solo Combat di Albert Camus a fare opposizione, Sartre si teneva coraggiosamente inguattato) col trucco di De Gaulle e “Radio Londra” sono riusciti a sedersi al tavolo dei vincitori insieme agli americani, agli inglesi e ai russi. Noi, sconfitti senza se e senza ma, dovemmo lasciare sul terreno Trieste, poi riscattata da movimenti popolari nazionalisti.  

Io non posso credere che tutti i nostri padri o nonni siano stati delle canaglie perché fascisti e tutti noi, oggi, “anime belle” perché democratici. E scrivo questo con tranquilla coscienza perché mio padre, Benso Fini, pisano, che lavorava per la Nazione di Firenze oltre ad essere licenziato dal quotidiano fu manganellato due volte dalle squadracce fasciste. La prima dai fascisti pisani e fu una manganellata per così dire ‘dimostrativa’ perché si conoscevano tutti e dopo una botta al collo fece finta di essere svenuto e la cosa finì li. Ma la seconda volta c’erano i fiorentini e la batosta non fu per niente dimostrativa. Lui scelse allora la via dell’esilio in Francia dove rimase una quindicina d’anni e incontrò quella che sarebbe diventata sua moglie, Zenaide Tobiasz, che ebrea, fuggiva da un altro totalitarismo, quello stalinista che degli ebrei, come degli zingari o comunque di chiunque apparisse “diverso” e non allineato faceva carne da macello. Rientrato in Italia nel ’40 alla dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia e all’Inghilterra fece quel poco di Resistenza che ci fu al Corriere della Sera, poca cosa ma sufficiente a lasciarci la pelle soprattutto con una moglie ebrea e i tedeschi in casa. Ora se io dovessi chieder conto a quelli che fanno adesso i fenomeni dell’antifascismo di cosa fecero i loro padri o i loro nonni, come oggi si chiede conto a coloro che sono sospettati di filofascismo del loro lontano passato, mi comporterei davvero da fascista.

Il Fatto Quotidiano, 28 Aprile 2023