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È da un po’ di tempo che i giornali di destra e di sinistra ma in definitiva tutti i milanesi hanno preso di mira Beppe Sala, il sindaco della metropoli. In genere si lamentano disagi materiali, l’estensione della ztl, la mancanza di polizia alla Stazione Centrale, la situazione delle periferie e, soprattutto, il costo della vita che è diventato insostenibile. Disagi materiali, dicevo, perché Milano un tempo cattolica (Sant’Ambrogio) e socialista oggi non è più né socialista né tantomeno cattolica né almeno attraversata da qualcosa che abbia a che fare con la religione o con lo spirituale e il sacro.

Ma di ciò Sala non ha alcuna responsabilità. I fenomeni che hanno portato all’evidenza delle disuguaglianze sociali e allo smodato individualismo vengono da lontano e hanno all’origine la modernizzazione e la sua madre naturale la globalizzazione. Gli Stati Uniti, punta di lancia dell’attuale modello di sviluppo e usi a omologare alla propria way of life ogni cultura, hanno una parte, anche se non decisiva, ma piuttosto marginale, in questi processi. Già nel 1956 Renato Carosone cantava “tu vuo’ fa l’americano”, volendo con ciò dire che gli autoctoni, in questo caso i napoletani, volevano adeguarsi agli stili di vita americani.

Ciò che ha cambiato Milano nel suo habitat, sociale e urbanistico, è l’omologazione che le ha fatto perdere il senso della comunità, che pur aveva avuto nel dopoguerra fino agli anni del boom. Io non conosco non dico i miei coinquilini ma nemmeno il vicino di pianerottolo da cui mi separa solo una sottile parete.

Milano era una città di quartieri in cui ci si conosceva tutti. Noi ragazzini uscivamo di casa alle due, per andare a giocare, e rientravamo alle otto di sera senza che i genitori se ne preoccupassero. Se uno di noi si fosse messo nei guai sarebbe intervenuto un adulto. E poi c’era il ghisa, vigile urbano disarmato, un po’ come il bobby londinese, di solito un bel giovanotto, come si usava dire allora, milanese, che nel quartiere era una autorità assoluta. Ed era pronto ad intervenire per ogni inconveniente: “dillo al ghisa, c’è lì il ghisa, parlane al ghisa”. C’era poi il Commissario di quartiere che, come il ghisa, ci conosceva tutti e sapeva bene dove si potevano nascondere dei pericoli. Pochi anni fa mi citofona la portinaia: “C’è la Polizia”. “Faccia salire”. Erano in due, il poliziotto buono e quello cattivo, come usa. “Dobbiamo fare una perquisizione”. “Fate pure, intanto io torno alla ‘lettera 32’ perché devo mandare un articolo al giornale”. Sono laureato in giurisprudenza, ma quando tocca a me non ricordo nulla dei miei diritti, però ad un certo punto mentre quelli perlustravano la casa, un po’ sbigottiti e resi incerti vedendo la mia libreria, chiesi: “Qual è la motivazione?”. Si trattava di “contraffazione di marchio industriale”. Ora io possa essere sospettato di ogni genere di violenze ma la contraffazione di marchio industriale è la cosa più lontana da me che ci possa essere. Se ci fosse stato il vecchio Commissario di quartiere lo avrebbe saputo e avrebbe evitato ai due pulotti quell’inutile perlustrazione.

Milano, dicevo, era una città di quartieri e ogni quartiere aveva un cine di terza visione (la prima e la seconda le davano in centro). Ogni cine dava durante la settimana il poliziesco, il giallo, l’americanata ma anche un film di qualità. Non era necessario andare all’Orchidea, cinema d’essai, in via Terraggio. Tutta la mia generazione si è educata filmicamente nei cine di terza visione. Era anche un modo per conoscere quartieri meno frequentati, perché ogni quartiere aveva le sue abitudini.

Gli affitti non erano proibitivi. Una giovane coppia, quale eravamo noi, sposati, mi pare nel 1973, poteva scegliere fra una casa piccola ma centrale e una più grande, ad Affori, alla Bovisa, ma comunque pur sempre in città.

La gente che non ha soldi è stata spinta, gradualmente e inesorabilmente, nell’immenso ed anonimo hinterland dove ci sono paesi che del paese hanno spesso solo il nome, hanno il municipio e poco più.

Nella Milano cui mi riferisco, quella degli anni Cinquanta e primi Sessanta a Brera o al Garibaldi si mescolavano ceti molto diversi dal punto di vista economico e sociale. Certo Pirelli abitava in una casa di Caccia Dominioni. Gli altri in case molto più modeste (oggi Brera è diventata un baraccone per turisti scemi). Ma così i diversi ceti si interfecondavano. Poi c’erano i locali, il Giamaica, Oreste dove anche noi ragazzini, o comunque giovanissimi, potevamo incontrare letterati di fama che non si erano ancora trasformati in funzionari di Case editrici e bazzicavano la città. Da Oreste, in piazza Mirabello, dietro al Corriere (ma per fortuna quelli del Corriere non si facevano vedere) incrociai Umberto Eco che mi regalò e mi dedicò Diario minimo che, a parer mio, resta il suo libro più interessante a dispetto dei successi di quelli successivi, perché Eco è sostanzialmente un antropologo sociale e non un romanziere.

Ogni bar, allora, aveva un biliardo. I biliardi, a parte alcuni luoghi per professionisti, sono spariti. Ho chiesto il perché al gestore di un bar che frequento in via Fara: “elementare Watson” mi ha risposto “i biliardi occupano un grande spazio e rendono poco. Le slot, addossate alle pareti, occupano niente spazio e rendono molto”. Ma il biliardo era un modo naturale di avvicinare i giovani e gli anziani. Nel locale interno si giocava d’azzardo, poker, ramino pokerato, tresetteciapàno, senza che ad alcun pulotto venisse la bizzarra idea di venire a ficcare il naso, e se lo faceva si metteva a giocare anche lui.

Giocando a poker, quello vero, non l’insopportabile Texas hold’em, finivamo alle tre o alle quattro del mattino. Potevamo scegliere fra almeno venti locali, quelli di lusso o le bettole più malfamate frequentate dalla “mala” ed erano i posti più sicuri perché lì non doveva succedere niente.

Quando andai ad abitare in via Novara, estremo ovest della città, c’erano ancora gli “orti di guerra”. La campagna si intersecava con la città. Mi ricordo che un omino, che mia madre chiamava l’uomo delle uova, veniva a portarci a casa prodotti agricoli, frutto proprio di quegli orti.

Milano poi, che non è mai stata, a differenza di Torino, una città “mono”, culturalmente e socialmente, aveva infiniti negozietti, le drogherie, le mercerie, i tappezzieri, i fruttivendoli, i macellai, i salumieri, i ferramenta, i casalinghi. Oggi se ho bisogno di un martello devo rivolgermi ad amazon.

Dischi. Una volta c’era il mitico vinile, oggi superatissimo dall’AI. Del resto nei locali trendy, poniamo di corso Como, si vedono coppie impegnate perennemente con i loro smartphone che non si scambiano una parola. Milano è una città di solitudini, individuali e collettive. I vecchi, sempre per ragioni legate al cambiamento urbanistico (i locali sono troppo piccoli per tenerseli in casa), finiscono nelle Rsa. Certo ci sono anche i volontari che vengono a casa quando sei in fase terminale. Se dovesse venirne uno da me, con le residue forze che mi rimangono, lo farei ruzzolar giù lungo le scale.

Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2023

Un articolo sulla costante e, a quanto pare, disaffezione alle urne degli italiani verrà pubblicato domani sul Fatto.

m.f